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Empire

Empire di Milo Rau, l’ultimo capitolo della trilogia sull’Europa dopo The Civil Wars e The Dark Ages, è uno dei titoli di maggior rilievo della 23° edizione del Festival delle Colline Torinesi. Il regista svizzero, fondatore dell’International Institute of Political Murder, ha dichiarato in un’intervista a Le Temps, nel 2016, di considerarsi un reporter engagé. Forse anche in virtù della nozione di “campo” appresa da Pierre Bourdieu e della necessità di immergersi in una realtà per comprenderla.

Non ci viene consegnata la “scoperta” di nessuna verità. I poli magnetici attraverso cui si avvolge lo spettacolo sono la parola Empire e la parola Tragoedia: l’Europa è il continente in cui sempre nuove e sottili forme di imperialismo si intrecciano ad un passato antichissimo radicato in miti feroci. Solo pochi giorni fa la vicenda della nave Aquarius ci ha posto, per l’ennesima volta, di fronte a questi temi. Con Milo Rau lo spettatore è lasciato a trarre i propri giudizi, a prendere posizioni proprie nelle riflessioni riguardanti una situazione geopolitica estremamente complessa. In scena i quattro attori sono anche quattro esseri umani che hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’esilio, della migrazione, della fuga e della ricerca di un “rifugio”.

Ramo Ali, Rami Khalaf, Akillas Karazissis e Maia Morgenstern sono i testimoni dei racconti evocati in una cucina-casa, rivelata all’inizio dello spettacolo dietro la facciata di un edificio diroccato. La scenografia di Anton Lukas concretizza e addensa i significati delle parole dei personaggi, parole dette in curdo, arabo, romeno e greco, le lingue originali, le lingue madri di questi racconti che necessitano non solo dei significati ma anche dei significanti che passano attraverso i suoni. Come quando Maia Morgestern-Medea e Akillas Karazissis-Giasone dialogano, rispettivamente in romeno e greco. Questo dialogo può avvenire, come avviene, perché qui è permesso, che Ramo Ali parli curdo sul palcoscenico. Il discreto tema musicale di Eleni Karaindrou accompagna le narrazioni composte e asciutte degli attori: non si tratta di un teatro che cerca l’immedesimazione del pubblico nei personaggi. L’immedesimazione è impossibile e se non lo fosse impedirebbe, per dirla con Brecht, di sviluppare una riflessione a riguardo.

La presenza viva degli attori in scena e i volti in primo piano sullo schermo in bianco e nero che li sovrasta abitano lo spazio scenico armonizzandosi tra loro. Gli indispensabili sovratitoli si trovano a metà del nostro campo visivo. Sul lato destro del palco il tecnico Aymrik Pech cura dal vivo il dialogo tra i diversi media. Lo schermo trasmette le foto di alcuni dei dodicimila uomini assassinati dal regime di Bashar El Assad e le immagini di un attentato a Qāmishlī, ma lo sguardo non rimane incatenato all’orrore, come con i telegiornali, nelle cene in famiglia, quando non si riesce a pensare. Lo sguardo rimane mobile e attento e può innescare movimenti interiori. In questo, forse, risiede la funzione trasformativa dell’arte, in cui il regista bernese crede e che evoca anche nell’intreccio di ricordi familiari e professionali, come la collaborazione della Morgestern con Theo Angelopoulos e Mel Gibson.

La drammaturgia, allora, è una tessitura di realtà e finzione capace di restituirci una qualche verità. E poi? E poi inizia la tragedia.