Abbiamo visto al TPE – Teatro Astra lo spettacolo Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro di e con Fabrizio Gifuni.
L’attore porta in scena il frutto di uno studio intenso e personale sugli scritti di Aldo Moro. Gifuni ci consegna personalmente il suo invito a leggere questi documenti, affinché non consideriamo la morte di Aldo Moro un evento auto conclusivo. Nonostante per anni le sue lettere siano state definite la narrazione di un’Italia ormai passata, queste fungono da specchio in cui si scorge il riflesso di una nazione in quegli anni fragile, immobilizzata, dipendente da “suggerimenti esterni”.
Molte delle questioni trattate nel memoriale sono evolute fino ad oggi e risultano estremamente attuali, come se profeticamente da lui ci fossero state anticipate.
Gifuni entra in scena, saluta il pubblico e si dedica ad un breve momento introduttivo in cui riassume rapidamente il contesto e le dinamiche attorno alla figura di Aldo Moro e al suo rapimento. Espone sinteticamente i temi contenuti nei documenti, al fine di renderli comprensibili anche nei passaggi del testo più complessi.
Pochi secondi di silenzio. L’attore solleva una gamba e con un passo pronunciato entra a tutti gli effetti nei panni di Aldo Moro prigioniero. Seguono circa cento minuti di lettura, ritmo serrato, un crescendo di disperazione.
In un primo momento Moro scrive lettere che contengono esortazioni ai colleghi della Democrazia Cristiana affinché si attuasse presto una negoziazione. Col passare delle settimane, al diminuire della fiducia nella possibilità di essere liberato, le sue parole cambiano. È sempre più evidente la propensione del partito (e non solo) a seguire una linea dura che non ammette compromessi.
Emerge, pensiero dopo pensiero, il sentimento dell’abbandono e del tradimento. Col passare delle settimane Moro è sempre più frustrato. Più di tutto gli reca rabbia e sofferenza sapere che, fuori, chi interpreta le sue lettere, le definisce scritte da una persona ormai soggiogata, che non ragiona più con lucidità bensì cercando il favore dei suoi rapitori.
Nelle lettere alla moglie la supplica di far sentire la sua voce, di tutelare la loro famiglia. Nelle parole indirizzate ai suoi cari non risparmia pensieri dolci e consigli per tutti, manda loro copiose benedizioni e frasi colme d’affetto e nostalgia, forse anche di rimpianto.
Il momento più duro riguarda le ultime parti del memoriale e la lettera di dimissioni dall’incarico di Presidente della Democrazia Cristiana. Nessuno dei suoi colleghi verrà risparmiato. Su di loro la colpa di non aver dato ascolto al suo grido d’aiuto e di aver ignorato il peso delle conseguenze delle loro azioni. La responsabilità di quanto hanno fatto cadrà loro addosso come un macigno. Non solo la morte di un uomo bensì un episodio gravissimo nella storia del partito e della nazione.
Gifuni è straordinario nell’uso della voce, nelle intenzioni, nei gesti apparentemente più semplici. È estremamente consapevole del suo corpo e si fa messaggero. Un fantasma, quello di Moro, trova il corpo dell’attore, l’unico tra i presenti in grado di trasmettere i suoi significati, e se ne impossessa. Gifuni è come in trance.
Poi di nuovo alza la gamba, un passo ampio: il fantasma resta nella sua dimensione restituendoci l’attore estremamente provato, senza fiato, stordito. Lunghi minuti di applausi, un sentimento di gratitudine generale, il pubblico si alza in piedi. È accaduto il teatro nella sua forma più autentica: partecipativa e rituale.
Silvia Picerni