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LA COMMEDIA DELLA VANITA’

Elias Canetti racconta che l’idea originale di questo suo testo teatrale – quasi un unicum nella sua produzione, più nota per il romanzo Autodafé e, soprattutto, per l’imponente e fondamentale saggio Massa e potere – ovvero quella di un bando esteso a tutti di non potersi specchiare, di privarsi della propria o altrui immagine riflessa o fotografata, è nata come idea giocosa nel tedio ambiguo e per certi versi imbarazzante del guardarsi allo specchio dal parrucchiere, ma che fu solo il cortocircuito con la realtà dell’inizio del regime nazista, che produceva ordini e imposizioni aberranti, come il rogo dei libri, e che vedeva tali ordini eseguiti con ottuso fervore, a dare a Canetti l’intuizione finale di scrivere questo testo.

Foto di Serena Pea

Claudio Longhi, in questo quarto pannello di scavo sull’identità europea dopo La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, Il ratto d’Europa e Istruzioni per non morire in pace di Paolo Di Paolo, affronta il difficile e complesso testo canettiano organizzando una sinfonia in tre tempi basato su di uno spazio circense, come il monologo iniziale del banditore Wenzel Wondrak poteva suggerire, e dove i numerosi personaggi si aggirano come marionette stilizzate e oppresse da un potere invisibile ma onnipresente, che ha lanciato il divieto assoluto di specchiarsi o di vedersi in immagine fotografiche. Accompagnati da Fausto Russo Alesi che sovente si fa una sorta di guida-burattinaio dello spettacolo, recitando le didascalie del testo, informandoci dei luoghi e dei personaggi che appena dopo appaiono e così uscendo e straniandosi dai tre personaggi che interpreta, l’imballatore Barloch – uomo grezzo e popolano – Heinrich Föhn e Josef Garaus, emblemi, come spiega Longhi stesso nel libretto introduttivo, il primo di una versione degenere del superuomo nietzschiano e il secondo della frustrazione del potere, assistiamo nel primo movimento alla gioiosa e carnevalesca adesione al bando, dove tutti i personaggi, agghindati da abiti appariscenti o grotteschi, spesso deformanti le figure, portano al rogo le fotografie, che diventano quasi una moneta di scambio per potervi partecipare con più zelo. La successione di questi personaggi (dall’insegnante alle tre amiche fino alle sei ragazzine in abito color pastello) rammenta lo svolgimento a “numeri” dei varietà e dei circo, una sorta di variazione su di un unico tema, dove la regia spinge sul pedale del grottesco per una società che pare ballare inconsapevolmente sull’orlo di un abisso – o, forse, più propriamente con l’ambientazione dello spettacolo come acrobati che non sanno di non avere reti di sicurezza sotto di sé.

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il Giardino dei Ciliegi secondo Malosti

Il giardino dei ciliegi è l’ultimo testo teatrale scritto da Anton Čechov tra il 1902 e il 1903. È composto di quattro atti, presenta un forte richiamo biografico e si può affermare che in questa opera compaia l’idea visionaria di una società ormai finita e completamente ribaltata, idea che poi avrà la sua conferma quindici anni dopo con la Rivoluzione d’Ottobre.

E’ la storia di una famiglia aristocratica russa che decide di tornare nella proprietà di campagna dove vi è un grande giardino di ciliegi. Il tutto inizia in una mattina di maggio: c’è un clima di grande attesa nella camera di bambini. Tutti stanno aspettando che la famiglia ritorni a casa dopo cinque anni di assenza. Sin da quando i protagonisti entrano in scena ci si accorge dell’aria spensierata che hanno tutti anche quando, poco dopo i saluti, il mercante Ermolaj (interpretato da Fausto Russo Alesi) comunica che la loro proprietà ad agosto sarà messa all’asta per far fronte ai debiti. Ermolaj propone di dividere il giardino in tanti lotti da poter affittare ai villeggianti in estate così da raggiungere la somma di denaro necessario in poco tempo. Ma ovviamente questa idea non viene presa minimamente in considerazione da Ljuba, la padrona di casa, che in quel giardino, dove ogni giorno poteva ammirare la bellezza dei suoi alberi di ciliegio, ha vissuto la sua vita e dove hanno vissuto tutti i suoi antenati. Infatti la sentiamo dire: “Dormivo in questa stanza, da qui guardavo il giardino, la felicità si risvegliava con me, ogni mattina, ogni mattina era come oggi, niente è mutato”. Entra uno studente universitario amico di suo figlio, morto cinque anni prima nel fiume del giardino. Il primo atto finisce con la confessione della figlia, Anja, a sua sorella adottiva, Varja, a proposito dei tanti debiti che ha la madre, che potrebbe risanare sposando un uomo ricco, per esempio il mercante, oppure cercando un prestito da una loro zia.

il giardino dei ciliegi

Nel secondo atto riusciamo a percepire la grande noncuranza della famiglia per la situazione economica molto critica. E’ come se ciascuno di loro fosse rinchiuso in un mondo fittizio di illusioni per scappare dai problemi scomodi e dalle sofferenze. L’unico che cerca di riportare i discorsi sui problemi economici è il mercante mentre Ljuba riesce solo a pensare a quell’uomo con cui ebbe una relazione a Parigi e che, approfittando della sua ricchezza, sperperò tutto il suo denaro per poi abbandonarla. Sempre più si capisce perché l’autore definisse questa opera una commedia (più precisamente una vaudeville) e non una tragedia come invece venne classificata sin dalla sua prima apparizione al Teatro d’Arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij e di Dančenko, supervisionato dallo stesso Čechov. C’è infatti nel testo un grande contrasto tra momenti comici e momenti drammatici che distolgono l’attenzione dal problema principale e che creano nello spettatore una sorta di ambivalenza nel capire la direzione che vuole prendere quest’opera.

Nel terzo atto siamo all’interno di una festa che Ljuba ha organizzato nella speranza di avere buone notizie dall’asta in corso. In questo clima di allegria tutti festeggiano tranne Varja che rimprovera i partecipanti per il loro comportamento incosciente. A Ljuba arriva un telegramma da Parigi che la informa che il suo vecchio amore è malato e le chiede di scusarlo e di ritornare da lui. Lei ammette di non voler più avere nulla a che fare con Parigi e con quell’uomo spregevole ma che è forte la voglia di raggiungerlo anche se lo studente cerca di dissuaderla. Nella figura di questo giovane universitario si rispecchiano tutti gli ideali rivoluzionari di uguaglianza e libertà. All’improvviso entra Anja annunciando disperata che il giardino dei ciliegi è stato venduto e la madre incredula cerca delle spiegazioni da suo fratello Leonid (interpretato da Natalino Balasso), che però va diretto in camera sfinito dalla lunga giornata, e dal mercante Ermolaj che, pieno fin sopra ai capelli di alcool, cerca all’inizio di temporeggiare e poi ammette di aver comprato lui la proprietà. Il mercante con la sua azione comandata dalla rabbia, vuole vendicare tutti i suoi avi e restituire loro l’onore. Varja, la sua ipotetica promessa sposa, getta in terra le chiavi della villa ed esce infuriata. Alle fine del terzo atto vediamo Ljuba piangere mentre sua figlia Anja cerca di consolarla provando a farle immaginare un futuro nuovo e pieno di felicità. Scoppia qui un grande momento di disperazione della proprietaria che dà sfogo a tutto il suo immenso dolore e che rispetta a pieno le aspettative dello spettatore. Un momento di enfasi a mio parere necessario in questo punto del dramma. Sin dalla sua comparsa il personaggio di Ljuba viene interpretato da Elena Bucci con grande consapevolezza e sembrerebbe di immedesimazione totale, tanto da non percepire il minimo segnale di finzione nella sua recitazione. La Bucci interpreta il personaggio così come ci si aspetterebbe di vederlo. Penso più in generale che ci sia stato da parte di tutti gli attori della compagnia un grande studio sul proprio personaggio regalando così a ciascuno di essi un proprio spessore psicologico e un carattere ben definito. Una nota positiva va senz’altro attribuita al regista Valter Malosti per esser riuscito a incastrare i tempi delle diverse scene e a creare un ritmo magnetico in tutta la rappresentazione, caratteristica molto importante in questo dramma tanto che Mejerchol’d associava Il giardino dei ciliegi a una sinfonia di Čajkovskj. Dall’inizio la scenografia è quasi tetra, composta da pochi elementi ma essenziali. La musica, talvolta con suoni simili a dei boati, riesce ad avvolgere completamente gli spettatori .

Il quarto atto inizia nella camera dei bambini, come nel primo atto, ma con tutti i mobili coperti da teli bianchi e le valigie pronte. Il mercante prova ad offrire dello champagne per festeggiare ma il clima è tutt’altro che di festa. Dopo i saluti tra lui e lo studente dall’esterno si sentono dei colpi d’ascia e Anja chiede su ordine della madre di lasciare il giardino in vita fino alla loro partenza. La ragazza chiede notizie sulla salute di Firs, il fidato maggiordomo della famiglia che sentendosi male quella mattina, qualcuno ha portato in ospedale. La proprietaria entra con il fratello nella camera dei bambini per dare l’addio alla casa della loro infanzia. Lui annuncia di aver trovato un lavoro in banca e Ljuba rivela la sua ferma intenzione di tornare a Parigi dal suo vecchio amante. A Ermolaj chiede come ultimo favore di dichiararsi a Varja ma, una volta convinto, niente andrà a buon fine e si determina una situazione di profondo imbarazzo. Così il mercante scappa con una scusa banale lasciando la ragazza cadere in lacrime. Lentamente rientrano tutti in scena, pronti a partire e ognuno dà il proprio ultimo addio alla casa e al giardino dei ciliegi. Chi senza speranza, chi pronto a vivere una vita nuova, e chi, come i due fratelli, solo ora si rende conto di ciò che è successo. Questi ultimi rimangono soli nella stanza della loro infanzia piangendo, abbracciandosi e salutando per sempre il loro vecchio mondo. Quando escono, si ode il rumore della porta chiusa a chiave per l’ultima volta.

La scena ora è vuota. Pensiamo che sia tutto finito ma si sente il rumore di una porta che viene aperta. E’ Firs che entra tossendo e scopre di essere stato dimenticato nella vecchia villa. Subito si rende conto che come nacque e crebbe in quella casa, ben presto gli resterà anche da morire. Si sdraia su una poltrona e si abbandona al suo destino, mentre fuori scena si odono i primi colpi che abbatteranno per sempre il giardino dei ciliegi.

Alessandra Botta