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Un’introduzione alla danza contemporanea – Introdans fra van Manen, Childs, Kylián e Duato

Fonderie Limone di Moncalieri gremite per la sesta serata di Torino Danza. È olandese la storica compagnia Introdans che per l’occasione presenta quattro spettacoli del suo repertorio, creati da alcuni tra i più celebri coreografi viventi, ben distribuiti sul territorio europeo e non: Hans van Manen, Lucinda Childs, Jiří Kylián e Nacho Duato, provenienti, nell’ordine, da Olanda, Stati Uniti, Repubblica Ceca e Spagna. La ricca proposta si dimostra una degna introduzione alla danza contemporanea, come vuole il nome della compagnia, fondata negli anni Settanta con l’arduo intento di diffondere l’arte tersicorea nei Paesi Bassi ad un pubblico il più vasto possibile. Nella serata torinese infatti, Introdans porta in scena una fetta della più grande coreografia degli ultimi vent’anni del Novecento, eccezion fatta per il pezzo di Lucinda Childs che la celebre artista newyorchese ha creato solo due anni fa appositamente per la Introdans, ma che esteticamente e ideologicamente si integra alla perfezione con le altre tre proposte del programma.

Ad aprire la scena è Polish Pieces, un variopinto ed eccentrico balletto di Hans van Manen scritto su musica di Górecki nel 1995. Una dozzina di danzatori vestiti di lycra dai colori sgargianti ed una coreografia dinamica ed esuberante: queste le connotate di uno spettacolo astratto, nel senso proprio dell’astrattismo pittorico cui sembra farsi portavoce, e che ha i toni di un cartone animato ma il ritmo di una competizione sportiva. Forme bellissime si fanno e si disfano attraverso l’anatomia dei corpi perfettamente disegnata dai costumi attillati e non vogliono aggiungere altro al piacere della geometria e al divertimento dei colori.

Decisamente più contemporary nell’estetica (ma forse non nell’intenzione) è il secondo pezzo, Canto Ostinato, che Lucinda Childs ha recentemente ideato sulla omonima composizione del musicista olandese Simenon ten Holt. I giochi di luce che formano la scenografia sono costituiti da linee luminose che si incrociano parallele sul fondale. I danzatori, vestiti in bianco, si dichiarano più neutri rispetto alla gaiezza cromatica del brano precedente. La coreografia, fatta di simmetrie ripetitive ed ossessive, ammicca a certo minimalismo compositivo tutto americano, ribadendo la provenienza della coreografa. Al di là di queste suggestioni, che analizzate singolarmente sembrerebbero prese in prestito dalla danza contemporanea, lo stile coreografico è tuttavia insolitamente rigoroso, quasi accademico, potremmo dire moderno. I quattro ballerini, due uomini e due donne, si muovono all’interno di una costruzione modulare effettivamente ostinata, come da titolo, che si spegne in una leggera dissolvenza finale.

Più dichiaratamente drammatico è il Kylián del terzo balletto, Songs of a Wayfarer, che l’autore compone ispirato dai toni solenni dei Lieder di Mahler nel 1982 per il Nederlands Dans Theater. Cinque struggenti passi a due si incrociano in un ambiente agreste, oscuro e bucolico, dove lo stile coreutico raggiunge i picchi più lirici (ricordiamo che la coreografia è anche la più anziana fra le quattro proposte) ed esalta romanticamente i caratteri della coppia uomo-donna.

Chiude la serata Nacho Duato con il quarto ed ultimo pezzo, Rassemblement, il più lungo in durata ed il più ricco di contenuti drammaturgici. Un alto numero di ballerini racconta la storia dello schiavismo africano tout court evocando suggestioni che parlano di terre lontane. Immaginifico ed esotico, questo balletto del 1990 coniuga la cultura occidentale con quella dell’Africa attraverso alcuni escamotage visivi e contenutistici che, se oggi si rivelano facili cliché, negli anni Novanta erano ancora semanticamente innovativi (il danzatore di colore didascalicamente frustato da due guardie, i canti rituali intonati in una lingua a noi sconosciuta, i richiami coreografici a danze, movenze e gestualità marcatamente africane ecc.). Un inno a quel territorio di comunione culturale in cui comunità diverse possano incontrarsi, che commuove a tal punto la platea da far passare quasi inosservata la timida caduta di una danzatrice. Lo spettacolo di Duato è quello abitato dal ritmo più serrato e coinvolgente: le sequenze più evocative e toccanti si trovano qui e si scoprono alla fine della serata, cogliendo sapientemente il pubblico di sorpresa. Gli applausi sono fragorosi e partecipati.

In quasi mezzo secolo la Introdans, oggi diretta da Roel Voorintholt, dimostra di aver rispettato il suo obiettivo, riuscendo a diffondere su larga scala la danza di alto livello, veicolandone in modo efficace e riconoscente i significati. Un’introduzione alla danza contemporanea che presenta quattro spettacoli appartenenti a quello stile e quel particolare contesto produttivo precedente il sistema contemporaneo e che anticipa e apre la strada alla danza di oggi, definibile contemporanea in senso più stretto. Un invito alla comprensione di ciò che è adesso la coreografia, che di essa omaggia la grandezza e la coralità, attraverso una compagnia di alto calibro, e un repertorio che, preso per singoli frammenti drammaturgici, a tratti ancora incanta come fuori dal tempo. Tre classici e una novità, già anch’essa a suo modo classica, che convincono della riscoperta dei valori coreografici, di contro a certo già démodé concettualismo coreico. Un’introduzione alla danza europea (e non) che Torino può andar fiera di ospitare e diffondere, oggi, in Italia e che non a caso il pubblico ha dimostrato di apprezzare calorosamente.

«Il futuro è costruire su quanto di buono è stato fatto nel passato. Ci vedo un compito per i media, ma anche per i governi» dice Hans van Manen provocando le nuove generazioni di intellettuali, ancor prima che di danzatori, a farsi adeguatamente carico del passato, delle tradizioni e dei valori che la danza ha veicolato. L’invito, esplicitamente rivolto al vecchio continente, è, in questo momento storico, quello di saper leggere ed integrare i vecchi valori e, a partire da questi, fondarne di nuovi. Senza illudersi di poter applicare i paradigmi contemporanei alla storia del passato. Per farsi protagonisti del proprio tempo e non soltanto spettatori.

 

 

 

 

Tobia Rossetti