Archivi tag: in primo piano

Copioni di Commento – Illusion Comique

Illusion Comique in scena dal 16/01 al Teatro Gobetti.

Abbiamo deciso – essendo delle teatranti in embrione e compagne di palchetto –  di raccontarvi lo spettacolo insieme. Lo faremo in un modo nuovo per il Blog: come se fosse un copione, vi riporteremo le nostre conversazioni a caldo post spettacolo, ma anche quelle un po’ più riflessive  qualche giorno dopo lo spettacolo.

SIPARIO
Siamo in bagno e uno specchio corre lungo la scena. Elisa seduta su uno sgabello della toeletta bianca, Emily allo specchio cerca maldestramente di togliersi le lenti a contatto.

Elisa:      Allora? Si può sapere cosa ne pensi? Sono venti minuti che scuoti il capo sostenendo di aver visto di meglio. Dovresti essere più specifica.

Emily:    Parliamo ancora di Illusion Comique?

Elisa:      No, della pizza mangiata a cena! Certo che parlo dello spettacolo, dovremmo pur scrivere qualcosa  sul blog!

Emily:    E’ proprio questo il punto, non saprei cosa scrivere in proposito. Purtroppo, non mi ha entusiasmata. Insomma, si vede che è stato fatto da professionisti, ma…

Elisa:      Lo so, la recitazione in versi, vero?

Emily:    Sì, anche. Voglio dire: sembrava che alcuni attori non avessero capito bene ciò che stavano dicendo. Credo che un testo come quello meriti un’attenzione particolare, in modo tale che possa essere  compreso dal pubblico. Non metto in dubbio la difficoltà degli interpreti,   ma alle volte non si capiva   il significato delle parole pronunciate, quasi come se stessero sciorinando la lista della spesa senza  pensare al contenuto delle battute. Il risultato? Il poco pubblico presente perdeva facilmente l’attenzione.

Elisa:      Sei ingiusta, nel complesso non è stato così terribile.(trasognata) Ho trovato pregevole l’effetto  lanterna sulle pareti del teatro, all’inizio. E poi il rumore delle goccioline d’acqua dava               l’impressione che tutto il Gobetti si fosse trasformato in una grotta. Sembrava quasi di essere  parte della scena grazie alle prolunghe laterali e frontali del palco.

Emily:    In effetti, trattandosi di uno spettacolo metateatrale, devo ammettere che alcune scelte registiche    sono state particolarmente efficaci nel far accadere l’ “illusion comique”, appunto. Come la            materializzazione della quarta parete. Il tulle bianco dietro il quale recitano gli attori sembrava uno  schermo cinematografico. Lasciarlo cadere, alla fine, ha proiettato direttamente gli spettatori   dentro il teatro e fuori dall’illusione teatrale.

Elisa:      Alcune cose non le ho capite però. L’aspetto totalmente anacronistico dello stregone per esempio.

Emily:    Mmm. Condivido, sembrava Ozzy Osbourne con quegli occhiali da sole. Dici che ai tempi di  Corneille erano già stati inventati?

Elisa:      (assumendo il tono che avrebbe Wikipedia se potesse parlare) Gli occhiali da sole devono le loro origini agli Inuit che utilizzavano ossa di tricheco intagliate per proteggersi dai riflessi della luce sulla           neve, ma solo nel 1700 assumono la forma che conosciamo ora.

Emily:    (rivolgendosi al suo riflesso) Ma come diavolo fa a sapere certe cose?!

(il riflesso sullo specchio tace in empatica incredulità).

Elisa:      Io mi documento! Ora per cortesia  non fare i tuoi soliti commenti sulla mia dedizione allo studio. Io  me ne vado a letto. E vedi di non finirmi la crema notte, so che sei stata tu l’ultima volta.

Emily:    (con aria innocente) Sogni d’oro. (Elisa esce)

(Emily svuota il barattolo della crema)

Si spegne la luce.

SIPARIO

Emily Tartamelli ed Elisa Mina

di Pierre Corneille
con Titino Carrara, Leonardo De Colle, Loris Fabiani, Fabrizio Falco, Mariangela Granelli, Elisabetta Misasi, Massimo Odierna, Matthieu Pastore, Maurizio Spicuzza
regia Fabrizio Falco
scene e costumi Eleonora Rossi
luci Pasquale Mari
musiche Angelo Vitaliano
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Centro Teatrale Santa Cristina

IL GIURAMENTO DELLA DIGNITA’

Dal 16 al 18 Febbraio il Teatro Astra ha ospitato lo spettacolo Il Giuramento, un testo di Claudio Fava con la regia di Ninni Bruschetta. La storia è ambientata in Italia nel 1931 e narra di Mario Carrara, professore di Patologia all’Università di Torino, uno dei dodici docenti che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo. Mussolini lo aveva imposto per essere certo di avere pieno controllo sulla formazione, sugli  insegnamenti impartiti ai giovani, stroncando ogni possibilità di dissenso.

Lo spettacolo si apre con l’ingresso  in scena  (dalla platea) degli attori mascherati e con un mantello nero che intonano una versione rivisitata di Faccetta Nera in chiave jazz: un modo per  permettere agli spettatori di entrare nell’atmosfera in cui si ambienterà lo spettacolo; sono, infatti, molti i rimandi ai primi anni dell’epoca fascista che chiariscono il periodo storico e sociale della messinscena: il ritmo quasi martellante della marcia delle camicie nere scandisce la recitazione degli attori soprattutto in momenti di particolare tensione e alcuni allievi del professor Carrara si recano a lezione indossando la divisa del partito, muniti di regolare pugnale. Inoltre ci sono personaggi che incarnano le varie tipologie umane che si possono trovare sotto un regime: l’ufficiale austero dell’esercito che insegna ai giovani a essere forti e pronti per la guerra, i ragazzi che inneggiano al Duce sicuri che egli farà rinascere il Paese, e il Rettore dell’Università che sottolinea come l’Italia fascista abbia bisogno di muscoli e persone sane, declassando così i più deboli e i malati in un sistema a suo vedere perfetto, poiché freddo e inesorabile.

Al centro della vicenda, però, non vi è solo il contesto storico, che pure rimane  chiaro nella mente degli spettatori, non si vuole porre l’accento solo sul fatto che  il fascismo è stata  una dittatura  violenta e spietata. Al centro della vicenda, vediamo un uomo comune, con le sue manie e le sue abitudini, al quale piace il proprio lavoro, passare la propria conoscenza a giovani brillanti che saranno il futuro della società. Quest’uomo, Mario Carrara (David Coco), è sicuramente un antifascista, ma questa non è la prima cosa che viene messa in risalto, poiché egli, messo al corrente dal Rettore  che avrebbe dovuto prestare giuramento al Re e al Duce, vive una profonda crisi che non è dettata dal suo orientamento politico, ma dal fatto che prima di tutto si sente un uomo  e un medico. Il sapere, la conoscenza e la scienza non devono giurare a niente e a nessuno, non possono piegare il capo, ed è proprio per questo che Carrara non capisce perché un professore debba fare un giuramento su una materia oggettiva e totalmente slegata da qualsiasi retorica politica. Ed è qui che si scontra con l’opinione di altri: il Rettore (Simone Luglio) ha fede nel Duce, i suoi ragazzi sono stati quasi tutti ammaliati dalla promessa di valore e fama, e perfino il suo amico e collega apertamente socialista (Antonio Alveario) gli intima di giurare: perché lo faranno tutti, perché è l’unico modo per mantenere il proprio lavoro, ma soprattutto perché ormai il processo di affermazione di un totalitarismo è già iniziato e solo dall’interno si può ancora fare qualcosa. In un momento storico in cui le donne non venivano quasi considerate come esseri pensanti, sarà proprio la dolce e decisa Tilde (Stefania Ugomari di Blas), sua assistente da anni, alla quale è legato da un profondo affetto, a spingerlo a prendere una decisione. Grazie all’ultima conversazione con la donna, infatti, Carrara deciderà di congedarsi dai suoi studenti e accetterà di andare in carcere con l’unica colpa di avere avuto il coraggio di dire di no a qualcosa che riteneva profondamente ingiusto e proprio per questo con la testa alta di un uomo che con dignità si è distinto dal conformismo della società.

Dato il messaggio forte dello spettacolo, la regia ha voluto lasciare le menti degli spettatori sveglie e attente per tutta la sua durata realizzando una messinscena che non permetteva l’abbandono e l’immedesimazione: la scenografia essenziale rappresentava un aula universitaria con delle gradinate e una cattedra, aula che a seconda dei momenti poteva diventare anche un tribunale dove il professor Carrara sentiva premere su di lui il giudizio degli altri. Lo spazio teatrale era stato reso visibile in tutta la sua grandezza e potenzialità, e infatti anche le quinte erano sparite, in modo che gli attori uscendo di scena rimanessero sempre visibili al pubblico, spettatori anch’essi del dilemma interiore che si stava compiendo sul palco. Anche i pochi cambi scenografici sono stati fatti a vista  e spesso durante i dialoghi e i momenti corali si aveva un alternanza di recitazione e canto, che alla fine dello spettacolo si trasforma quasi in un canto funebre che accompagna Carrara in cella.

Molto interessante è l’uso dell’eco nei momenti più carichi di pathos, soprattutto quando il Rettore inneggia alle parole d’ordine del regime: in quei momenti è stato proprio come se quelle parole arrivassero direttamente dalle nostre coscienze, per invitarci ancora a riflettere su quello che è stato, sui gesti di uomini come Carrara, una memoria che non deve scomparire.

Degna di nota sicuramente è  la capacità degli attori di passare dal canto alla prosa senza perdere l’intensità del momento e facendo arrivare chiaramente al pubblico tutta la potenza di quello che volevano trasmettere.

Dopo lo spettacolo, ho assistito a un incontro di approfondimento con il regista Ninni Bruschetta, l’autore Claudio Fava e Tommaso De Luca, rappresentante dell’ANPI Provinciale, durante il quale è intervenuto anche il nipote di Mario Carrara, suo omonimo, presente allo spettacolo. Quest’ultimo, pur avendo apprezzato la recita, ha criticato alcuni aspetti della restituzione della figura del nonno,  primo fra tutti il fatto che non sia stata sottolineata chiaramente la posizione politica di Carrara, capostipite di una famiglia antifascista da generazioni. In risposta, l’autore ha sottolineato che il testo non voleva  raccontare che cosa fosse il fascismo, ma raccontare il coraggio di non conformarsi con la società, di rivendicare l’autonomia della ricerca scientifica. Infatti, con il suo gesto coraggioso, Mario Carrara è emblema di dignità e di dovere solo verso i propri principi scientifici. Come evidenzia poi il regista, nello spettacolo si è voluto scindere l’orientamento politico dal giudizio personale: quella di Carrara diventa un’azione eroica, poiché disgiunta dal fine; egli non pensa al risultato del suo rifiuto mentre lo compie, riesce solo a vedere con chiarezza quale sia la cosa moralmente giusta  da fare.

Concludo riportando una frase del personaggio del Rettore: “Non resterà traccia del vostro rifiuto”; i dodici nomi di chi si è rifiutato di giurare, elencati sulla via della prigione proprio da Carrara alla fine dello spettacolo, sono conosciuti e meritevoli di essere tramandati come un esempio. Gli altri 1238 professori invece non sono degni di memoria.

Alice Del Mutolo

Teatro Stabile di Catania
presenta

IL GIURAMENTO

novità assoluta di Claudio Fava
regia Ninni Bruschetta
con David Coco,
Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali,
Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano
musiche originali Cettina Donato
scene e costumi Riccardo Cappello
luci Salvo Orlando

Salome semiscenica al Teatro Regio

Torino, 15 febbraio 2018.

La perversa teenager Salome è il cuore del Festival Richard Strauss (2-25 febbraio) e titolo cardine della Stagione operistica: il Teatro Regio non vi rinuncia, nonostante l’incidente occorso il 18 gennaio durante una recita di Turandot, quando un elemento scenico è caduto sul palco ferendo due artisti del coro.

Costretto ad una soluzione di ripiego, il Regio presenta, per le cinque recite dell’opera (15, 18, 20, 22 e 25 febbraio) una versione semiscenica curata da Laurie Feldman, assistente di Robert Carsen, il cui allestimento del 2008 aveva riscosso grande successo.

La prima assoluta di Salome andò in scena il 9 dicembre 1905, diretta da Ernst von Schuch alla Semperoper di Dresda, e fu un vero trionfo, nonostante il clamoroso scandalo, o forse anche grazie ad esso: temi scabrosi come l’incesto e la necrofilia si univano ad una musica di enorme potenza espressiva. L’opera venne definita rivoluzionaria e fu eseguita nei maggiori teatri d’Europa. In Italia venne rappresentata la prima volta il 22 dicembre 1906 proprio al Regio di Torino, diretta dallo stesso Strauss.

Sul podio adesso c’è Gianandrea Noseda, al suo terzo appuntamento operistico della Stagione, dopo Tristano e Isotta e Turandot. Il direttore fa il suo ingresso con le mezzeluci in sala, cogliendo di sorpresa il pubblico. Le luci si spengono e la musica ha inizio.

Un atto unico che richiede grande abilità da parte del direttore d’orchestra, dei musicisti e dei cantanti, «una vera e propria vetta da scalare» afferma Noseda, che torna alla Salome dopo dieci anni. Si tratta di una partitura complessa, che richiede scelte difficili: ci sono linee musicali da prediligere e i fortissimi non possono essere tutti uguali se si vuole che venga alla luce il nucleo dell’opera, che si trova in quella connessione, strettissima, tra musica e parole.

«Questo testo grida musica» disse Strauss assistendo alla recita di Salome di Oscar Wilde e decise di musicare il dramma, nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann e con opportuni tagli e modifiche, senza la mediazione del librettista: è quella che, in termini tecnici, si chiama Literaturoper, operazione poco praticata allora, ma destinata ad una certa diffusione nel corso del Novecento.

L’opera si apre con il tema della principessa: un serpeggiante arabesco Jugendstil dei clarinetti che non è solo elemento decorativo, ma costruisce, con la sua linea, il personaggio dell’adolescente annoiata, capricciosa e sensuale. Questo disegno sinuoso definisce inoltre il clima di fondo dell’opera, il perverso intrecciarsi di passioni non corrisposte e giochi di potere. I temi musicali proposti, nonostante le variazioni, rimangono gli stessi dall’inizio alla fine: tale fissità dei temi, che non si influenzano gli uni con gli altri, rispecchia l’immobilità dei personaggi, che non hanno né la capacità, né la volontà di comunicare tra loro.

In un soffocante clima caldo umido il Profeta, che viene dall’arido deserto, annuncia con un semplice canto diatonico la venuta del Messia, ma la sua voce profonda e solenne è un corpo estraneo nel tessuto musicale dell’opera, la sua è una purezza che non purifica. Jochannan è incapace di redimere la fanciulla e ne teme persino lo sguardo. Se il bacio necrofilo con la testa mozzata non scandalizza più come nel 1905, rimane sconvolgente l’assenza completa di qualsiasi possibilità di cambiamento e di salvezza.

Durante la recita, tuttavia, non serpeggia alcun turbamento tra il pubblico e alcuni spettatori faticano a seguire il filo conduttore della vicenda, lasciandosi disorientare dal fatto che tutti gli interpreti siano sempre presenti sul palco, anche quando il personaggio è uscito di scena, come nel caso di Narraboth. Le sedie che connotano lo spazio all’interno del quale i personaggi interagiscono sono un segno chiaro per chi già conosce lo svolgersi degli eventi, ma non per tutti. I costumi, a cura di Laura Viglione, sono abiti da sera contemporanei che non caratterizzano in modo incisivo i personaggi. Allo stesso modo, le luci firmate da Andrea Anfossi, non sono in grado di infondere il necessario dinamismo a ciò che avviene in scena.

La direzione di Noseda mette in evidenza tutte le soluzioni musicali innovative per cui la Salome è apprezzata, la violenza espressiva di un’opera che ha anticipato il teatro musicale espressionista. Di fronte all’intensità dell’orchestra i cantanti risultano, a volte, un po’ deboli. Tuttavia il soprano svedese Erika Sunnegårdh, nel ruolo della protagonista, il tenore Robert Brubaker in quello di Erode, il mezzosoprano Doris Soffel, che interpreta Erodiate e il baritono Tommi Hakala nel ruolo di Jochanaan riescono ad entrare nella psicologia dei personaggi.

Questa Salome semiscenica, che alla ridondanza verbale di Wilde e musicale di Strauss accosta una essenzialità scenografica da teatro epico brechtiano, porta alla luce uno dei temi fondamentali su cui si gioca la ricezione del pubblico: la regia.

Parte degli spettatori ha espresso il proprio gradimento per questa versione perché ha permesso di concentrarsi esclusivamente sulla musica. Ma non di sola musica si compone l’opera: in essa si combinano, in modo equilibrato, la recitazione, la danza, i costumi, le luci e altro ancora. Quando ogni elemento si fa portatore di un’istanza espressiva coerente con il significato della vicenda, allora questa può comunicare qualcosa che ha a che fare con noi e con il mondo in cui viviamo. Che Salome sia ambientata nell’antica Palestina o nell’odierna Las Vegas, sarà riuscita soltanto quando il pubblico uscirà dal teatro turbato per quel Fantasma di perversione che è in grado di evocare.