Un saggio? Questa è la domanda che sorge dopo aver visto il 17 giugno Roberto Zucco, testo di Bernard-Marie Koltès, con la regia di Licia Lanera che dirige i ragazzi appena diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma andiamo con ordine. Lo spettacolo segue le vicissitudini di Roberto Zucco, patricida, matricida, più in generale assassino, e rubacuori. Un omicida alla fine venerato come una star, che riceve il saluto dagli agenti di polizia. Uno spettacolo, a parere di chi vi scrive, senz’altro piacevole e divertente. La recitazione dai movimenti spesso esageratamente evidenziati dei giovani attori lo rende comico e paradossale. Esagerato al punto da sfiorare (o addirittura cadere) perfino nello splatter di stampo tarantiniano. Eppure, mi duole dirlo, uno spettacolo largamente migliorabile. Da non fan della dizione perfetta a cui gli attori sono troppo spesso costretti, a discapito delle più naturali inflessioni regionali, ho apprezzato lo sforzo di inserire accenti provenienti da varie parti d’Italia. Eppure si è trattato di un obiettivo, purtroppo, mancato: gli accenti suonavano tristemente quanto palesemente finti. E poi, parole mangiate e battute mal tradotte, mal adattate e forse anche mal esposte, che poco seguivano la lingua parlata di tutti i giorni – alla quale evidentemente si voleva mirare – e che le rendevano talvolta difficili da ascoltare.
Pur apprezzabile in sé, lo spettacolo non mi è parso davvero efficace nel presentare dei nuovi attori al pubblico. Dei diciotto interpreti presenti in scena, meno della metà sono stati effettivamente valorizzati, mentre gli altri sono stati relegati in parti minori e con poche battute. Soprattutto le attrici, che hanno dato prova di professionalità e di dedizione alla causa nel mostrarsi nude sul palco, ma era un nudo davvero necessario o era un espediente?
In conclusione, per questi giovani nuovi attori mi sembra un inizio un po’ incerto, ma rivolgo loro il mio più sentito in bocca al lupo per una carriera lunga e piena di successi.
Maddalena Ghirardi
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ORGIA: una spirale nevrotica di vita e di morte
«Orgia – rispondeva così Pasolini, nel 1968 – è il dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini, che rinchiude nel ghetto, è il rapporto tra diversità e storia».
«La mia Orgia è la tragedia di chi non sa stare al mondo» risponde, invece, più sinteticamente Licia Lanera, regista, nonché attrice protagonista di questa revisione moderna, e a tratti un po’ punk, dell’omonima tragedia dello scrittore bolognese e fondatrice nel 2006, insieme al drammaturgo Riccardo Spagnuolo, della compagnia Fibre Parallele.
Ed è proprio quest’ultima a ridurre a uno la trinità del corpus pasoliniano, consegnando l’inadeguatezza e la difficoltà del vivere nelle mani e nel “cappuccio nero della felpa” dell’Uomo:
«Sono l’Uomo e la Donna perché io sono già quell’ambiguità, non c’è bisogno di travestimenti. La tragedia è di entrambi, solo la prostituta è totalmente inconsapevole del mondo. Il rapporto di potere, di carnefice e vittima, di dominio, tra marito e moglie, è però in fondo paritario, non lo è fisicamente ma mentalmente sì» spiega l’attrice.
I protagonisti vivono in due realtà: quella superficiale fatta dell’odore dei gelsi profumati, di sorrisi e di ingenuità e quella nuda e cruda della camera dei due sposi, dove si consuma ogni forma di piacere, di terrore, di rimorsi e di violenza, poiché quest’ultima è l’unico mezzo in grado di mettere in comunicazione le due fragili belve.
Una poltrona al centro del palcoscenico, un leggìo, un microfono – scelto appositamente dalla Lanera – per risuonare meglio, un cappuccio per trincerarsi e da tirare sopra la testa fino a coprire gli occhi; un’alternanza di luci e buio dove si muovono dei pesanti anfibi neri e un corpo irrequieto e pulsante che resta in ascolto della sua stessa voce registrata, riempiono il palcoscenico del Teatro Astra, che in occasione del Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale dello spettacolo.
Nella rilettura della Lanera, dove carnefici e vittime si scambiano continuamente i ruoli, viene enfatizzata la tragedia della diversità, cara a Pasolini, insieme a quella della linguistica: in particolare viene enfatizzata la dicotomia tra linguaggio verbale (inesistente e frivolo) e linguaggio del corpo, con i suoi tratti barbari e animaleschi.
Il monologo finale dell’Uomo, che uccide la moglie-serva dopo aver messo in atto con lei pratiche sadomasochiste, vuole renderci consapevoli che la realtà intorno a noi è fatta di parole macchiate di menzogna, che addirittura ci vengono insegnate sin dall’infanzia; sono «parole, parole, parole che parlano», che riempiono le nostre cucine, i nostri luoghi di vita, le nostre camere da letto… parole che, in realtà, non hanno nulla da dire. Ricorrere alla violenza sembra ormai essere l’unico modo per l’Uomo di colmare questo vuoto, che lo porterà sino al suicidio: «Ho scoperto che c’era un qualcosa che mi tranquillizzava nel tenere la testa nel mio stesso vomito…».
Ed è soltanto grazie al suicidio, che egli raggiungerà la completa libertà. Durante i 60 minuti di spettacolo, infatti, la scenografia della Lanera muta via via forma, diventando sempre più grottesca, squallida e nauseante, quasi si stesse preparando un rito di morte, che è allo stesso tempo rinascita e vita.
La novità della messa in scena consiste, poi, nell’incursione dell’incalzante rap di Eminem e nell’apparizione di tre dipinti seicenteschi (Paesaggio con la Ninfa Egeria di Claude Lorrain, Maddalena in estasi di Caravaggio, Ila e le Ninfe di Francesco Furini), riprodotti dal pittore Giorgio Calabrese: immagini che permettono uno sdoppiamento della visione teatrale.
La voracità e la spregiudicatezza delle parole e dei movimenti di Licia Lanera, la sua crudeltà e la sua nudità scenica fanno del testo di Pasolini una “bomba a mano” in procinto di esplodere addosso al pubblico e di farlo riflettere su quanto sia estenuante vivere in un mondo dove i rapporti sociali altro non sono che rapporti violenti e di potere, in cui c’è sempre chi copre il ruolo di vittima e chi quello di carnefice, ma anche dove il carnefice è egli stesso vittima, quasi a rovesciare il concetto darwiniano di selezione naturale, dove a perdere e a vincere siamo tutti e non solo il più forte!
Martina Di Nolfo
ORGIA
Fibre Parallele
di Pier Paolo Pasolini
regia Licia Lanera
con Licia Lanera
e Nina Martorana
regista assistente Danilo Giuva
consulenza artistica Alessandra Di Lernia
luci Vincent Longuemare
costumi Antonio Piccirilli
dipinti Giorgio Calabrese
tecnico di produzione Amedeo Russi
organizzazione Antonella Dipierro
spazio Licia Lanera
produzione Fibre Parallele
coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing& Management
con il sostegno di L’Arboreto-Teatro Dimora di Mondaino
la compagnia è sostenuta dal MiBACT