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MEMORIE DEL SOTTOSUOLO – MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA

Da martedì 16 a domenica 21 novembre, al Teatro Gobetti, va in scena Memorie del sottosuolo, adattamento drammaturgico e regia di Marco Isidori, dall’opera omonima di Fëdor Dostoevskij. Il romanzo è passato alla storia come l’ennesima aspra riflessione sulla condizione umana, in particolare nella sua presunta inconciliabilità tra “volontà” e “ragione”, e tutte quelle convenzioni umane che per mezzo di quest’ultima si giustificano: scienza, tecnica, organizzazione sociale. Il positivismo ottocentesco, le speranze nell’edificazione di un mondo più giusto, dunque più prevedibile e quindi più “agibile”, sono contraddette dai sofismi del protagonista – logici quando sufficienti, meramente volontaristici quando necessari: 2×2 può anche fare 5, e non sarebbe poi così male! L’opera prende la forma di un discorso-fiume, un dialogo artificiale che il protagonista intrattiene con dei presunti destinatari di cui lui stesso formula domande e risposte.

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Amelia la strega che ammalia and friends

Eccoci qui, siamo davanti al teatro Marcidofilm incuriosite da quello che ci aspetta. Notiamo la porta semiaperta quasi come se ci stesse invitando ad entrare e così con decisione la varchiamo. Constatiamo subito la diversità tra il quartiere difficile e l’interno caldo e ospitale, essenziale ma con dei dettagli che rimandano ad un cabaret. Le pareti bianche creano contrasto con il pavimento e le sedie di un rosso cremisi. Il soffitto si adorna di un lampadario d’acciaio composto da una serie di lampadine che illuminano tutto il foyer. Ci sentiamo frastornate dal chiacchiericcio delle persone accanto a noi. Si percepisce il fermento e la curiosità di gustare il primo spettacolo della nuova stagione dei Marcido Marcidorjs. D’altronde questo piccolo spazio è stato inaugurato solamente il 23 novembre 2015 dopo una lunga attività teatrale di trent’anni lavorando in svariati palchi della città. Ecco, finalmente tutti hanno il biglietto in mano e insieme ci dirigiamo verso la grande tenda nera che separa il foyer dalla sala. Rimaniamo immediatamente colpite dallo spazio molto piccolo, dotato di una cinquantina di poltrone rosse. Il palco sembra assente ma troviamo un sipario che funge da schermo. Prendiamo posto.

Parte quasi subito un sobbalzo di voci e avvertiamo che lo spettacolo sta per iniziare. Con nostra sorpresa si alza il sipario rigido illuminato da disegni e finalmente ci accorgiamo della presenza del palco. Non ci sono scenografie elaborate attorno ad esso, vi troviamo solamente un uomo dialogare a voce alta appoggiato su una ruota rialzata in legno. Man mano che lo spettacolo va avanti sbucano da dietro la ruota altri otto personaggi, sembra quasi il richiamo di un gioco illusorio. L’oggetto viene capovolto e i nove attori si mettono in fila. Notiamo subito il loro abbigliamento spoglio ma contrastato da colori sgargianti quasi come se la compagnia volesse dare un effetto intimo tra spettatore e attore ma allo stesso tempo dire “noi siamo qui”. Incomincia un gioco di dialoghi e coro perfettamente preciso, quasi matematico. Le voci sono così sincronizzate da far sembrare che sul palco ci sia un solo attore. Man mano che lo spettacolo prosegue capiamo che non c’è solo un lavoro estremamente preciso sulle voci ma anche sulle luci, alternandosi anch’esse ad un ritmo ben definito. La ruota è il fulcro della scena: gli attori girano intorno ad essa, ci salgono sopra, ci giocano e si piegano a lei. L’esaltazione della voce a tratti stridente e delle loro movenze che si attorcigliano ad essa toglie l’attenzione allo spettatore sul testo e lo porta a concentrarsi maggiormente sul suono. Verso la fine dello spettacolo viene appesa sulla parete frontale un’installazione luminosa, la costellazione del carro maggiore che fa da sfondo all’interpretazione di un testo di Nietzsche.

 La rappresentazione si conclude con la canzone resa celebre da Sordi “Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai” che coinvolge tutti gli attori. Questa rappresentazione, della durata di un ora e venti, appare forte per la sua imponenza sonora e piacevole per il suo modo disinvolto di affrontare una tecnicità matematica diversa da altri spettacoli.

(a cura di Alessandra Nunziante)

 

 

Il testo portato in scena dalla compagnia non è un semplice copione teatrale, ma il prodotto di un lungo lavoro di selezione di scritti poetici condotto dal regista Marco Isidori. Oggetto di questo studio sono le tre poetesse Amelia Rosselli, Sylvia Plath e Emily Dickison, affiancate da altri testi tra cui alcuni dello stesso Isidori, e da qui nasce il titolo Amelia, la strega che ammalia and friends.

La poesia diventa quindi materia prima dello spettacolo e lo spettacolo a sua volta si piega a favore di essa, disegnando nuove forme per potersi adattare a un linguaggio che non gli è estraneo ma neanche così vicino. Per questo i Marcido, noti al pubblico anche per spettacolari e imponenti apparati scenografici ideati da Daniela Dal Cin, rinunciano quasi del tutto alla scenografia e ai costumi e si concentrano sulla parola, sulla sua potenza e sulla sua deformazione. La recitazione è estremizzata, portata all’esasperazione, mentre il testo viene ridotto a suono e gesto. Gli attori alternano momenti solistici a momenti corali coreografati alla perfezione, il ritmo è sempre sostenuto e incalzante, i cambi di scena giocati su silenzi volutamente marcati. L’accurato lavoro di analisi linguistica conferisce allo spettacolo una cifra stilista sicuramente originale e ricercata. Per quanto questa impronta artistica sia riconoscibile e in qualche modo godibile anche per un pubblico totalmente ignaro, il testo arriva allo spettatore completamente destrutturato nel suo senso grammaticale. È molto difficile che chi avesse ingenuamente assistito a questo spettacolo senza essersi informato prima su ciò che sarebbe andato a vedere, possa aver capito qualcosa del testo. Non c’è nessun indizio che permetta di orientarsi all’interno dell’esibizione, si viene semplicemente travolti dall’energia prorompente degli attori in scena. Attori che sembrano sempre sul punto di “scoppiare”, schiacciati dal peso di uno sforzo fisico e interpretativo esagerato.

Una recitazione che destruttura e scompone così violentemente le parole per esaltarne la sonorità, determina sicuramente un lavoro molto sofisticato e poetico, ma interpretando in questo modo il senso letterale delle poesie stesse viene quasi completamente perso. Pochi, per non dire praticamente assenti, sono i cambi di ritmo e di intenzione: una volta ingranata la marcia (non la quinta, ma la sesta) si procederà così per tutto lo spettacolo. Per questo motivo la performance, pur essendo indubbiamente carica di un’espressività travolgente, risulta poco dinamica. I meravigliosi cori e le coreografie degli attori danno un ritmo incalzante che tuttavia rimane sempre uguale, e questo porta inevitabilmente a una perdita di attenzione da parte di chi guarda.

Se l’obiettivo che si voleva raggiungere era quello di lasciare il pubblico incantato dall’esaltazione del gesto e del suono, ma confuso e frastornato da un senso logico-narrativo che manca, allora si è raggiunto pienamente. Dopo un po’ si smette di ascoltare con l’intelletto e ci si abbandona all’orecchio. Quello che rimane impresso è un lavoro fatto di sonorità e fisicità sorprendenti per la loro forza e la loro composizione, ma prive di un contenuto che vada oltre l’apparenza estetica. O per meglio dire, il contenuto c’è ed è considerevole, ma la trasfigurazione estrema delle parole non ci permette di coglierlo quanto avremmo voluto.

(a cura di Eleonora Monticone)

AmletOne! : una fiammata

La prima stagione del teatro Marcidofilm è stata inaugurata lo scorso anno, in onore dei trent’anni della compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. La scelta del primo lavoro è ricaduta sul AmletOne! Dopo il successo della scorsa stagione, lo spettacolo è stato riproposto anche nel calendario di quest’anno, dal 9 al 13 novembre.

Come l’apertura del nuovo teatro, anche l’inizio dello spettacolo è stato prorompente. Il telo che a prima vista poteva parere semplicemente un eccentrico sipario viene trapassato all’improvviso da dei lunghi tubi. Le voci corali, inconfondibile caratteristica della compagnia, rompono il silenzio attraverso i loro strani megafoni trattando subito uno degli argomenti simbolo dell’Amleto di Shakespeare, una meditazione sull’essere. Da dietro la tela ci viene narrato una specie di prologo e una considerazione sull’opera. Compaiono quindi delle ombre in movimento ed è così che vedremo per la prima volta i personaggi. Poi i buchi che sono stati fatti sulla tela rimangono vuoti e ciò che segue sarà un intero minuto di totale buio accompagnato da forti rumori. L’effetto che si crea nel buio improvviso, utilizzato poi anche in una successiva scena, è davvero efficace e viene distrutto e fortificato da ciò che ci troviamo davanti alla riaccensione delle luci: una vera e propria fiammata.

Ora il palco è visibile, la scenografia è composta da strutture regolari e da scale, ma ciò che non ci si aspetta sono i colori. Dominante è il giallo fosforescente e lo stridente contrasto con il rosso, il nero e il bianco. I colori sono presenti tutti assieme su ogni struttura e sopratutto, in forme diverse, su ogni tuta e sui volti dei personaggi che attendono fermi guardando il pubblico. Ci viene presentata subito la corte e i vari personaggi circondano i due troni centrali su cui sono seduti Gertrude e Claudio, interpretati da Maria Luisa Abate e Marco Isidori, anche autore e regista di questa personalissima versione dell’Amleto.

Ogni personaggio è caratterizzato in maniera differente. Gertrude e Claudio hanno il viso tirato con dello scotch rosso cosicché le loro espressioni ci paiano quasi falsate e il loro ghigno evidenziato. Ofelia, simbolo dell’amore nell’opera, ha un cuore bianco bordato di rosso sull’intero volto giallo e la sua femminilità è rafforzata da un costume rigonfio che le evidenzia i fianchi. Polonio è invece un uomo stabile e sembra un consigliere retto e giusto, i decori del suo costume sono infatti simmetrici e sulla fronte presenta un cerchio rosso mentre il volto è interamente bianco. Laerte ha disegnata sul volto una figura spigolosa a scale che forse vuole simboleggiare il cambiamento che durante l’opera ha nei confronti dello stesso Amleto.

Scelta molto particolare è invece il teschio raffigurato in testa a Orazio. Esso può simboleggiare sia il rapporto che il personaggio ha con gli spettri e quindi con la morte o essere semplicemente un divertente escamotage per rendere in scena l’ormai simbolica immagine di Amleto pensieroso con in mano il teschio.

Il protagonista è la figura che ha maggior risalto e a differenza degli altri personaggi non presenta alcun tono sgargiante, è l’unico che veste interamente di nero con linee a saetta argentate. Paolo Oricco, che ne dà una forte interpretazione, ha il volto interamente bianco con gli occhi cerchiati di nero e i capelli sottilissimi e molto chiari seguono i movimenti dati dalla sua pazzia. In tal modo viene anche evidenziata una certa fragilità del personaggio, oltre all’ovvio dualismo, grazie al gioco di bianco e nero.

La simmetria presente nelle scenografie e negli spostamenti degli attori accentua la totale sregolatezza che mano a mano si impossessa in primo luogo di Amleto, poi di Ofelia e per come si atteggiano in scena anche degli altri protagonisti.

Come al solito le scenografie di Daniela del Cin si trasformano presto anche in macchine teatrali, cosicché nei cambi di scena a vista, realizzati dagli stessi personaggi, gli attori possano fare ampio uso delle variazioni d’ambiente che si creano. In questo modo le varie figure divengono un tutt’uno con il palco e le situazioni ci sembrano, nonostante le esagerazioni o modifiche dei Marcido Marcidorjs, perfettamente legate alla scena. Avremo quindi Amleto e Ofelia che dialogano in bilico su una sbarra portata sul proscenio e lo squilibrio di entrambi si accentuerà, ed é in questo momento che viene appena citato il monologo dell'<essere o non essere>.

Un altro gioco divertente è stato fatto grazie alla scena del teatro nel teatro presente anche nell’opera originale. In questo modo le varie voci dei personaggi ed il monologo di Amleto elogiano la stessa “finzione amica” e rendono lo spettacolo a corte un discorso meta-teatrale.

“Lo spettacolo” spiega Maria Luisa Abate in un’intervista “parte come una specie di ingranaggio e poi monta. Più gli oggetti vengono sparpagliati, più si allontanano dal centro della scena e più l’azione si fa forte!” . È infatti questo che vediamo: uno smontarsi e rimontarsi della scena che è perfettamente in linea con la storia e con l’evoluzione dei personaggi.

“Fino ad arrivare all’assoluto niente, a tutto nero” e vediamo quindi svolgersi lo scontro finale con poca luce e senza più evidenza dei colori sgargianti. Amleto e Laerte saranno sospesi con dei cavi e sorretti dagli altri attori, mentre il resto della scenografia sarà quasi scomparsa.

Marco Isidori ha preso il testo e ha fatto in modo di renderlo suo e adatto ai nostri giorni, e come ha detto la stessa Abate ha tentato di “riportare quello che ci può ancora interessare di queste parole, di questa tradizione, nella modernità”

“Una fiammata” lo descrive Paolo Oricco, poiché ai nostri giorni non vi é motivo di presentare al pubblico l’Amleto originale. I tempi e i temi devono quindi seguire e soddisfare il pubblico, il quale deve comprendere e sentirsi vicino a ciò che viene rappresentato. Vengono per questo citati Trappola per Topi di Agatha Christie e sentiamo nel finale una canzone di Sergio Endrigo. Veniamo trasportati ai giorni nostri insieme a questo Amletone molto scherzoso.

“Abbiamo voluto che questo Amleto fosse un Amleto-Marcido, che fosse quindi esagerato, potente ma che allo stesso tempo il pubblico riconoscesse l’Amleto che si aspetta”

Intervista a Maria Luisa Abate della Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa

Qualche domanda rivolta all’attrice Maria Luisa Abate, tra i fondatori della compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa.
Il tema dell’intervista verte principalmente sullo spettacolo “Bersaglio su Molly Bloom” (in scena a Torino dal 3 all’8 maggio), passando dalla scenografia di Daniela Dal Cin, all’influenza della poetica di Marco Isidori sugli attori della compagnia.