Che cosa accade quando un’anima solitaria, così solitaria da fare della solitudine la propria identità, si scontra con l’anima di un bambino di tredici anni appena rimasto orfano di madre? Cosa accade quando una solitudine così fiera e accanita viene forzata ad avere compagnia? Accade che comincia un viaggio, un viaggio scomodo, una viaggio stretto, spigoloso, accidentato, pericoloso. Un viaggio che vede protagonisti due compagni d’avventura che non parlano la stessa lingua, non si comprendono, non si assecondano, non hanno come fine un obiettivo comune. Un’anticipazione sul finale? Non andrà bene.
In una salotto che ha per tappeto persiano uno strato di terriccio e per mobilio una schiera di vigili e squadrati manichini, accasciata su un divano a dir poco demodé, racconta la sua storia – terribile – di figlia, sorella e zia, una donna che vive sola, vestita come la più classica delle rappresentazioni della categoria femminile comunemente nota come”zitella”.
Con il naso e gli occhi rossi di pianto, racconta dell’orribile visita notturna ricevuta poco prima: la madre e il padre, defunti e fantasmi, portano con la loro apparizione una notizia che sconvolgerà le sorti di quest’anima solitaria e risoluta. La mattina seguente, questa notizia si concretizza in una fredda telefonata che la informa della morte di sua sorella. Ma, per quanto doloroso possa essere la perdita di una persona cara, non è questa la novità che la metterà a dura prova: in ospedale, rimasto al capezzale della sorella deceduta, c’è suo nipote, l’ultimo erede della famiglia, un giovane uomo rimasto orfano e bisognoso adesso delle cure di sua zia, in attesa di sapere a chi verrà affidato in via definitiva. La donna, priva di alternative, porta il ragazzo a casa sua, gli cede la sua stanza, e si prepara a questa convivenza forzata. Una convivenza che passerà attraverso diverse fasi, prima tra tutte, la ricerca di un modo per comunicare. Un qualcosa che può apparire semplice a un primo sguardo ma che si rivela invece estremamente complesso. Zia e nipote infatti non parlano la stessa lingua: quando lei dice qualcosa, qualsiasi cosa, lui strabuzza gli occhi, la trapassa, non comprende quel che dice. Chiuso in un mondo fatto di videogiochi e verbi all’infinito, quasi come fosse una creatura primitiva proveniente dal futuro, il giovane uomo mostra interessi completamente differenti rispetto a quelli della zia. Ed è in questo momento di massima incomunicabilità che lei capisce di non dover mollare: proprio quando la situazione con il nipote diventa quasi insostenibile, sente gravare sulle sue spalle tutto il peso di quella giovane creatura che le è stata affidata. Lei non solo dovrà trovare un modo efficace per comunicare con lui, ma dovrà curarlo, indirizzarlo, educarlo. La felicità del suo tesoro, adesso, è sua responsabilità. Come se il vero tesoro fosse custodito proprio nel futuro di quel giovane, come se la felicità del ragazzo potesse diventare la sua stessa felicità.
Investita di una missione che non può fallire, la zia ci prova, ci prova con tutta se stessa: si interessa ai suoi piani, chiede al ragazzo quali sono i suoi sogni (così poveri per appartenere a quelli di un ragazzino che si affaccia alla vita), lo indirizza verso il liceo classico – per farlo formare come uomo, e non come re dei molari – , interviene a favore di un’insegnate di italiano, raccogliendo su di sé le ire dei genitori esperti utenti di facebook e whatsapp. Asseconda il giovane innamorato – di una lampada – e lo porta a vedere la Juventus, ma non prima di avergli fatto assaggiare la parmigiana (surgelata, del supermercato, ma pur sempre parmigiana). Si imbattono entrambi in un disperato tentativo di sperimentare la conoscenza di uno sconosciuto di nome Silenzio, e se pur staccare la corrente dell’intero appartamento per gioire di un silenzio di fine ottocento non si rivelerà un’idea vincente, andrebbe sicuramente premiata per l’audacia dimostrata.
Il tutto prende vita all’interno di una curatissima scenografia (opera di Stella Monesi) che fa vivere un salotto ora sogno ora incubo; un’ambiente così cupo e tagliente – di forme e di luce – da far rimanere ipnotizzati. I manichini di ferraglia sistemati sulla sfondo come una squadra pronta all’attacco vigilano silenziosi per tutta la durata della storia.
Un mondo invaso da persone che pensano di sapere tutto, che enunciano senza freni la propria opinione protetti dallo schermo luminoso di un portatile o uno smartphone, pronti a difendere a spada tratta i propri pargoli, a proteggerli dal mondo intero. Un mondo di sedicenti genitori che crescono i figli secondo le proprie regole, chiusi a qualsiasi possibilità di confronto, incapaci di qualsiasi possibilità di miglioramento per il semplice fatto che loro non ne hanno alcun bisogno. Un mondo dove gli insegnanti vengono pestati all’uscita dalla scuola o minacciati sul gruppo whatsapp. In un mondo come questo, vive una donna che non pretende certamente di sapere come si alleva un giovane essere umano. Una donna che ha paura. Paura di quel ragazzo, della responsabilità che sente esserle scesa sul capo a turbare la tranquillità di un’esistenza così ben costruita. Ha paura di non saper come fare, di non riuscire nel suo grande compito di affidataria temporanea. E ce lo dice così, senza vergogna, senza troppi giri di parole. Non ha bisogno di atteggiarsi a zia modello, di darsi un tono come se dovesse dimostrare di essere infallibile (qualche genitore potrebbe e dovrebbe prendere nota). Una donna che ammette i propri limiti, che cerca di migliorare se stessa prima di pretendere di migliorare la giovane vita che le è stata affidata. Una donna che si mette in gioco con una dedizione e una tenerezza che quei sedicenti genitori-educatori non potrebbero nemmeno permettersi di sognare. Questa donna ci permette di vedere le sue debolezze, e così noi lo avvertiamo tutto, questo peso. Ed è ora che cose scontate e semplici come il parlare o la scelta di cosa fare dopo le scuole medie ci sembrano così difficili da affrontare. Cose che si danno un po’ troppo per scontate, forse.
Perché la bellezza e la forza di questo spettacolo sta proprio nell’insegnarci che non basta parlare la stessa lingua o trovarsi a vivere nella stessa casa per riuscire a comunicare davvero. E chi lo avrebbe mai pensato?
Sola in scena, e al contrario del suo personaggio comunicando in modo meraviglioso con il suo pubblico, è anche Serena Balivo, membro della Piccola Compagnia Dammacco, premio Ubu 2017. Attrice di una misurata eleganza, cura in modo quasi maniacale un personaggio denso e tortuoso, dalle movenze e dalla parlata grottesca e ironica, pungente come il testo rappresentato, La buona educazione, che debutta in prima nazionale per la regia di Mariano Dammacco in questa fortunata edizione del Festival delle Colline Torinesi.
Un’ultima osservazione. Corre un brivido lungo la schiena, una scossa elettrica che fa drizzare i peli delle braccia, quando zia e nipote vanno dalla dottoressa. Questa dottoressa visita entrambi, che sono lì un po’ controvoglia. Visita il ragazzino di latta con lunghe pinze metalliche e occhiali da aviatore, poi fa alcuni esami che mostra alla zia. Dalle lastre, sono visibili tutte le macchie dall’anima del ragazzino. Quella sì che è una dottoressa molto speciale.
La buona educazione
Regia di Mariano Dammacco
con Serena Balivo
spazio scenico di Mariano Dammacco e Stella Monesi
Produzione Piccola Compagnia Dammacco / Teatro di Dioniso
In collaborazione con L’arboreto Teatro Dimora, Teatro Franco Parenti, Primavera dei Teatri, Asti Teatro 40
Eleonora Monticone