“Un altro sguardo”
Bisogna perdersi per ritrovarsi, talvolta ci si perde, però, nella speranza che possa trovarci qualcun altro, magari chissà, attraverso “un altro sguardo”, un Second look. Articolata in 10 cortometraggi, la proiezione di Second look attraversa la quarta parete come un proiettile, seguendo il file rouge di Hartaqat, con la prospettiva del dover “nascere due volte”. Un concetto che esprime una memoria costretta ad essere labile, talvolta inutile e che spesso, risulta appartenere più agli altri che a noi stessi. I ricordi costituiscono la nostra identità, quella di Rabih è stata in qualche modo profanata, il suo tentativo di raccogliere un gran numero di immagini, sembra restituirgli sembra restituirgli quella giustizia, per sè e per i soggetti ritratti nelle foto, che ha l’intenzione di sanare un vuoto che rimarrà incolmabile, un’esigenza, quella di Rabih, di collezionare quelle foto in bianco e nero, con cui crea un profondo legame empatico.
Lina Majdalanie e Rabih Mruoè sono due registi libanesi, naturalizzati francesi, coppia nel lavoro e nella vita ma sopratutto artisti, che oserei definire completi, per la maestria con la quale legano fra loro diverse arti, creando il proprio teatro contemporaneo. Utilizzando infatti strumenti, quali immagini, parole, musiche, strumenti musicali, luci, voci e proiezioni, miscelandoli armoniosamente. Un teatro il loro, di un impatto non indifferente, lo testimonia la quantità di pubblico che apprezza e lavora sulle loro opere, come hanno fatto Maddalena Giovannelli, Alessandro Iachino e Renato Palazzi, dedicandogli il terzo numero della trilogia Stratagemmi, della rivista Act. I temi sono spesso forti e profondi e per questo necessitano degli eventi collaterali del Festival delle Colline Torinesi, che aiutano a spiegarne gli intrecci ed i messaggi principali, seppur siano ben chiari nello svolgersi degli spettacoli.
Qual è il ricordo, del vostro percorso artistico al quale siete più legati? Questa è la domanda che ho posto ai due registi, al termine dell’ incontro al Polo del ‘900, il 12 Ottobre << ci sono tanti ricordi nel mio percorso artistico, non ho un’ottima memoria devo dire>> dice Rabih ridendo << penso però che di tutti questi anni, il ricordo più bello, sia stato quello di “far cambiare lo sguardo”>>. La risposta di Rabih chiarisce e rafforza ulteriormente l’obiettivo della loro arte, la quale, esercitata insieme o separatamente, ha l’obiettivo comune di regalare quel Second look, “altro sguardo” che li contraddistingue. Il profugo, tema chiave di questo 28° Festival delle Colline Torinesi, con paese ospite il Libano, è colui che fugge da una realtà crudele per la quale è costretto a rinunciare alle proprie radici, dovendosi sradicare da tutto ciò che gli è appartenuto fino ad allora, rifugiandosi in un nuovo paese che, al costo di perdere ciò che gli appartiene, possa donargli la libertà, sia essa fisica, morale o d’espressione. Lina Majdalanie e Rabih Mroué, in questa proiezione ci insegnano a parlare di noi stessi attraverso le esperienze di altre persone, con storie a noi simili o completamente diverse, ci insegnano a comunicare dolore, abbandono, giustizia, solitudine e seconda nascita oltre la lingua e le parole, attraverso l’immagine e l’immaginazione.
Episodio 1
Dal titolo Questa non è una metafora, il primo episodio ci regala subito un rumoroso silenzio, accompagnato da un piano a scorrimento orizzontale di due immagini sfocate, che appaiono inizialmente sovrapposte e la cui nitidezza è raggiungibile solo al termine del loro scorrimento. L’ immagine è ora chiara, i soggetti in primo piano sono sagome di edifici, un cielo limpido sullo sfondo, nuvole, le sagome sono nere, tutto appare fermo. Lo scorrimento sembra interpretare un viaggio, la confusione del percorso è forse rappresentata da queste immagini sfocate e sovrapposte che quasi faticano a distinguersi. Quando si raggiunge finalmente la chiarezza dell’immagine, si distingue il profilo di una città, chissà, forse Beirut. Gli edifici si distaccano dal fondale, iniziano a lasciare il terreno, si dirigono verso l’alto, vestiti di nero. Resta solo un limpido cielo azzurro, null’altro, ogni sagoma è scomparsa, ogni sagoma è forse un omaggio ad un’anima.
Episodio 2
Dal titolo Quando non eravamo ancora nati, il secondo episodio si apre con lo scorrere di una forma indefinita composta da immagini mescolate fra loro di varia natura. La ripresa rimbalza e sbatte sulle linee che determinano la forma indefinita, delimitando perciò lo sguardo dello spettatore anche attraverso restringimenti della ripresa. La “parola” è fondamentale in questa seconda parte in quanto dona la possibilità di immergersi completamente nella proiezione artistica, accompagnando il racconto visivo e perciò coinvolgendo maggiormente il pubblico oltre a creare una delicata empatia ed una calorosa accoglienza. << Colleziono le foto, ne colleziono di tutti i tipi, anche se preferisco quelle in bianco e nero, le colleziono per spiare le vite degli altri, appropriandomi di ricordi altrui e giustificandomi con il pensiero di salvarle>> questo dice lo stesso Rabih nel monologo originale poi doppiato da Marcello Spinetta in italiano. Visto da Lina come un profanatore di memorie, Rabih vuole forse solo proteggere ciò che gli è stato strappato via, i ricordi certo ma anche la sua storia, attraverso la conservazione di ogni volto impresso sulla carta. Storie mescolate, dettagli che distraggono e colori che si possono solo immaginare. Lo scorrimento termina con l’inquadratura di un uomo con una macchina fotografica, scontornato e su sfondo nero, che lascia poi spazio ad un allargamento della ripresa sulle stesse foto che compongono la forma indefinita, questa volta viste da lontano, sole, con le loro forme e la loro identità. Nessuna visione d’insieme << la storia non è un’isteria, per riuscire ad osservarla, dobbiamo esserne esclusi>> così dice Rabih.
Episodio 3
Il collezionismo nasce dalla volontà di proteggere delle storie o delle parti di esse, talvolta può però divenire la profanazione di queste, trattenendo nel tempo ciò che avrebbe il diritto di essere lasciato andare. << Lo trovo molto violento, non riesco a dimenticare che queste persone abbiano avuto una vita e con essa una privacy>> Lina Majdalanie, compagna di vita di Rabih, descrive con queste parole l’inquietudine del collezionismo e dichiara rivedendosi in esse :<<quando morirò voglio che le mie foto brucino con me>>. In Libano la cremazione è proibita, non si può decidere cosa fare del proprio corpo nemmeno di fronte alla morte, al medesimo modo solo i ricordi che portiamo nel cuore possono perire con noi stessi. Ciò che rimane di noi agli altri, finisce per non appartenerci più ed è così che essi possono disporre dei nostri ricordi nel miglior modo nel quale ritengano debbano essere trattati. Una consapevolezza tanto cruda non impedisce a Lina, in quella che riconosce come ipocrisia, di amare comunque quelle foto, sparse in ogni angolo di quello spazio che lei chiama “casa”. Non a caso il terzo episodio si intitola Perchè sono un’ipocrita. Su due bande laterali bianche, scorrono dall’alto verso il basso, foto scannerizzate, a destra la parte frontale e a sinistra il retro, cullate dalle parole di Lina doppiata dalla dolce voce di Francesca Bracchino: <<…lui pensa di essere un collezionista ma non lo è, sono anche io un’ipocrita ma mi consola il fatto che io ami le persone ritratte in queste foto, maledico il loro wellerismo, l’amore può essere letale qualche volta>> .
Episodio 4
Dal titolo Guardavo la foto che mi stava guardando con occhi lucidi, il quarto episodio, crea una profonda empatia tra collezionista e spettatore, facendoci entrare, pienamente, all’interno delle dinamiche che coinvolgono Rabih nella scelta dei volti appartenenti alla sua collezione di fotografie. Vagando per una città francese, Rabih si imbatte per caso in un banco di merce vintage, nel quale si distingue una scatola colma di foto. Attratto da un potente magnetismo e rapito da dettagli e colori, Rabih si accorge che quelle foto ritraggono tutte lo stesso uomo, in una foto indossa un giubbotto di pelle, ha occhi scuri, lucidi. In una lotta con la sua coscienza, il collezionista, prova con tutte le sue forze a non appropriarsi di una memoria che, ancora una volta, non gli appartiene. Il rispetto dell’identità di quest’uomo sconosciuto, gli impone di non rendere quelle foto oggetto della sua arte ma allo stesso modo di portarle con sé e proteggerle dal tempo << Qualsiasi cosa tu voglia fare di me non sarà più crudele di questo mercato>>. Il mercante era libanese, vendeva anche il giubbotto di pelle della foto. Il prezzo che ha accettato di pagare Rabih è quello di usare la sua lingua madre.
Episodio 5
Dal titolo Un fantasma seduto su una poltrona intento a guardare le sue foto, ci fa riflettere sul senso di una foto e sull’ironico paradosso di come esse alla fine non siano “utili” a nessuno. La ripresa si concentra sui dettagli di una foto antica, quasi a volerne scrutare ogni singola parte, come fosse un occhio: << I morti non hanno bisogno di foto […] o la vita torna indietro completamente o scompare, in entrambi i casi, sarebbero inutili […] riuscite ad immaginare un fantasma, seduto su una poltrona, che sfoglia un album delle sue foto? >>. Jeremy Bentham diceva che l’utile è ciò che produce un vantaggio, rendendo minimo il dolore e massimo il piacere. Il dolore di un’anima che ci lascia è inquantificabile e l’unica cosa che può ingannare il vuoto, diminuendo il dolore, è una fotografia.
Episodio 6 e 7
Dal titolo Vietato entrare e La stessa ansia, sono due cortometraggi molto brevi che raccontano, prima di Lina e poi di Rabih, del ruolo che i loro ricordi hanno nella loro vita e di quanta consapevolezza abbiano di essi. L’episodio sei è graffiante. Un manifesto strappato da un muro ormai rovinato è ciò che viene ripreso, una prospettiva dolorosa che visivamente ci restituisce subito il ruolo dei ricordi di Lina, rafforzato ulteriormente dalle sue affermazioni: << quando morirò voglio che tutto ciò che è mio venga buttato via, nel mare, è lì che riposeranno, in mare, qui i versi segreti non galleggiano ma affondano e per essere recuperati necessitano di pescatori esperti. Per fortuna sono pochi e dunque il mare è ancora pieno di segreti e lo sarà sempre.>> Segreti, i ricordi per Lina sono segreti, personali, delicati e privati, memorie che preferirebbe annegare piuttosto che abbandonare nella speranza che non finiscano nelle mani sbagliate, nel suo passato non si può accedere, è “vietato entrare”. Segue quindi il settimo episodio, scorre lenta la ripresa di fotogrammi, ognuno di essi rappresenta la stessa donna in primo piano, talvolta l’espressione del viso cambia e rende riconoscibili diverse emozioni, talvolta, risulta invece essere sempre la stessa espressione. Un suono profondo e vibrante apre il cortometraggio, l’angoscia, poi un armonioso arpeggio, ecco la consapevolezza: <<Man mano che passano gli anni, la mia storia diventa sempre più ordinaria, forse è perchè è accaduta solo a me. Diventano, quei ricordi, i personaggi principali, di un film che ho visto troppe volte, eppure non smette di fare male>>, il tempo passa per Rabih, il passato rimane immutabile e con esso i sentimenti che lo accompagnano, forse quelle foto vogliono arricchire questa storia “ordinaria” cercando di aggiungere o chissà, sostituire i personaggi ormai ridondanti di questo film che è la sua vita, una ricerca frenetica, continua che tenta di attenuare un’ansia perenne, “la stessa ansia” di sempre.
Episodio 8
Quello che succede quando nella vita quotidiana irrompe una guerra, lo spiega con una sorta di ironia Rabih Mroué in questo ottavo episodio dal titolo Il negozio di Constantine. Si dice: “l’insegnamento nel cadere sta nel ritrovare il modo di rialzarsi”, con queste parole si può riassumere la morale di questo cortometraggio, il quale ha l’intento di insegnarci l’arte del “ricominciare”. Una pellicola rotta apre il filmato, segue la ripresa di un televisore che manda in onda, quello che sembra essere l’atterraggio sulla luna. Rabih ha una grande famiglia i cui membri che la compongono sono 10. Abitano a sud di Beirut, la casa ripresa è quella dei suoi genitori e quella nel filmato è la loro televisione, la protagonista di questo racconto visivo. <<Era il 1967, zona Sud di Beirut, mio padre ha comprato la prima televisione, in due rate, al negozio di Constantine […] era il 1973, mio padre compra il secondo televisore, un proiettile bucò il primo […] era il 1982, un altro proiettile bucò il televisore, ne comprammo un terzo solo nel 1990, nel negozio di Constantine, non era più nel negozio di origine, si era spostato, per via della guerra>> questa linea narrativa adottata da Rabih, ripercorre i momenti più significativi della vita politica del Libano. La guerra inizia ufficialmente il 13 Ottobre del 1975, tuttavia erano già ampiamente presenti i conflitti nel paese, il primo proiettile che buca la tv risale infatti al 1973. L’ultimo proiettile bucò il televisore nel 1982 ma la scelta di acquistarne un terzo avvenne, come testimoniato dal collezionista, solo nel 1990, anno in cui viene dichiarata la fine della guerra in Libano. <<Ad un certo punto>> dice Rabih <<c’erano televisori in ogni stanza e solo i miei genitori a casa, con 5 tv>>, una metafora questa che con amarezza vuole raccontarci di come spesso, anche trovando la forza di ricominciare, attraverso sacrifici e valori, siamo circondati dal vuoto di ciò che ci è stato portato via: persone, sogni, ricordi: << Mio padre non ricorda nessuna di queste foto e neanche di averle scattate lui, eppure c’è scritto, è la sua calligrafia>>. Il loop di questo racconto ha scatenato reazioni di ilarità tra il pubblico, non le ho ben comprese, Rabih vive a Berlino, non ha nessuna televisione forse per far si che in questo modo, nessun proiettile possa bucarla.
Episodio 9
Dal titolo Le mie paure, i miei errori, nel breve seppur intenso episodio nove, parla per l’ultima volta Rabih, mettendo completamente a nudo la sua parte più fragile ed evidenziando il sentimento di impotenza che lo pervade facendolo sentire intrappolato << Ricordo errori e le circostanze in cui li ho commessi, eppure li ricommetto in circostanze simili[…] ha a che fare con il mio carattere, un carattere che non posso cambiare e se non riesco a cambiare me stesso come posso cambiare qualcosa del mio paese>>. In questo penultimo filmato viene ripreso un poster di carta, attaccato alla parete di un edificio che sembra abbandonato. Quest’ultimo sorge su una strada di periferia, un bambino gioca a pallone, non sembra aver alcuna attenzione per quel poster, in esso è raffigurata la sagoma di un uomo che appare elegante, ha un cappello, l’uomo è dietro delle sbarre, scalpita disperatamente, sembra chiedere aiuto in un grido che non può sentire nessuno.
Episodio 10
Chiude la proiezione artistica Lina Majdelaine con il decimo episodio intitolato M come malinconia, M come merda. << Quando avevo 14 o 15 anni, a scuola, la maestra ci chiese di fare un esercizio, coprire il sorriso di alcuni volti ritratti nelle fotografie guardandone solo gli occhi, ci chiese cosa vedemmo in esse, rispose lei, malinconia. Dopo anni ci ho riprovato, funziona ancora>>.
Second look è stata proiettato alla Fondazione Merz, che, allestita appositamente per ospitare presentazioni e spettacoli per il Festival delle Colline Torinesi, è in realtà una galleria d’arte, <<luogo di documentari, confini e sconfinamenti>> così definita da Alessandro Iachino, motivando la scelta di presentare alla stessa fondazione il volume della rivista Act dedicata a Lina Majdalanie e Rabih Mrouè. L’immagine è la protagonista indiscussa di questa serie di cortometraggi come lo è ormai diventata nella quotidianità, non solo per Rabih in quanto collezionista ma come artista e regista. La “picture” è un nuovo modo di comunicare, è potente e d’impatto ma soprattutto è immediata ed inclusiva ed è per questo divenuta la regina indiscussa della comunicazione, attraverso la rete internet, la pubblicità, la fotografia, l’arte e il teatro. Nella breve introduzione che precede la proiezione, Alessandro Iachino pone una domanda ai due artisti da sempre coinvolti nell’utilizzo eclettico dell’immagine come supporto per gli spettacoli.
Com’è cambiata la vostra storica relazione con le immagini? : <<Noi non siamo nati con i social media, oggi sappiamo quanto sia veloce e fondamentale l’immagine e per questo ci siamo chiesti, io e Lina, come portare questo a teatro. È una domanda a cui non ho risposta, poiché noi stessi ce la siamo posta. Proviamo, il cambiamento è necessario. Le immagini non hanno bisogno di parole, diventano o causa di grande odio o icone, simboli. Noi parliamo attraverso le immagini ed anche loro fanno lo stesso con noi, l’immagine è la condanna della parola, in essa c’è una completa assenza della verbalizzazione poiché contiene già un significato.>>: questo dice Rabih, riflettendo principalmente sul “come”. Lina invece, pone l’accento sulla responsabilità della memoria legata all’immagine: <<Nessuno può ricordare tutto ciò che è successo ma ognuno di noi ha la responsabilità di ricordare, seppur ogni memoria individuale sia edulcorata dall’immaginazione, rischiando perciò di dire il falso. La memoria si cristallizza, non è vera realtà>>.
Andy Warhol avrebbe detto “La cosa migliore di una fotografia è che non cambia mai, anche quando le persone in essa lo fanno.”, la rivista Act nasce dall’interrogativo dell’arte agente, l’arte che fa, l’arte che è e cambia le cose. L’arte può agire, agisce e può mutare ogni cosa ed è questo che ci hanno dimostrato Lina Majdalanie e Rabih Mrouè in questa proiezione, mutando ciò che di più personale ci appartiene, lo sguardo, trasformandolo in un Second Look.
Rossella Cutaia
Scritto e diretto da Lina Majdalanie e Rabih Mrouè
voice-over Lina Majdalanie e Rabih Mroué
animazione Sarmand Louis
editing Rabih Mrouè, Sarmand Louis
correzione fotografie Rafi Mrad
edizione italiana
traduzione Laura Bevione
voci Francesca Bracchino e Marcello Spinetta
registrazione a cura di Ruben Zambon
Coproduzione Festival delle Colline Torinesi\ TPE-Teatro Piemonte Europa