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Muttersprache Mameloschn – Lingua madre Mameloschn: alla ricerca della propria dimensione.

Non tutti siamo fatti per restare dove siamo nati: c’è chi, allora, parte e rispetta l’intenzione di non tornare più, chi parte ma torna indietro quasi subito, e chi, come Rahel, figlia di Clara e nipote di Lin – le tre protagonista di questa dramma- salpa alla volta di New York per iniziare un nuovo capitolo della propria vita, portandosi dietro un amuleto pesante di confusione storica, di ricordi e di fragilità.
Si sa, all’inizio è sempre allettante trasferirsi in un posto nuovo ma poi, piano piano, subentrano le difficoltà;  la vita, infatti, sa essere crudele e mette a durissima prova l’essere umano.

Rahel, inizialmente, gode della sua confusione a proposito delle vie senza nomi ma solo numerate; è felice di tornare a sentirsi nuovamente come una sorella minore- come scrive nelle lettere rivolte al fratello assente- e di non capire la lingua del posto: un’incomprensione linguistica che ricorda tanto Alexander Bruno, il protagonista di un libro di J. Lethem , che cerca a tutti i costi di andare in posti esotici in cui la lingua a lui sconosciuta lo lasci felicemente ISOLATO nell’incomunicabilità; ma se per questo protagonista il tutto si rivela come un dolce balsamo, per Rahel, invece, a lungo andare, diventa estenuante.
“Io non capisco i piccoli dettagli, le allusioni, non capisco nemmeno le barzellette, niente!” scriverà al fratello, in modo sempre più disperato. Le barzellette che strappavano risate dolci-amare, le barzellette simbolo di casa, simbolo di una lingua parlata da sempre con sua madre e sua nonna, una lingua madre appunto -un mameloschn– che ora ha perduto e non sa come ritrovare.

Sentirsi continuamente fuori posto, affermare la propria identità mediante la storia passata e ricercare una propria lingua madre in cui sentirsi a casa: sono questi i temi di un dialogo politico, religioso, familiare ed intimo che le straordinarie Elena Callegari, Francesca Cutolo e Maria Roveran portano in scena con tenerezza, passione e delicatezza.

È intorno al tema della partenza, però, che si snoda l’intero dramma. Il primo a essere andato via e a non aver fatto più ritorno è Davie, unica figura maschile dell’intero dramma che presenta la sua assenza unicamente con delle lettere spedite alla sorella Rahel, dalle quali si alzerà il coro delle voci della coscienza delle donne, con un sistema narrativo che ricorda il romanzo La grande sera di Pontiggia. Seguirà poi, la partenza della giovane ragazza, che segnerà un ennesimo colpo al cuore per una madre ormai “orfana” di due figli.
Partire, dunque, per cercare di risolvere le questioni in sospeso o addirittura lasciarle alle spalle, ma è davvero sempre possibile? Il poeta latino Orazio, in un famoso esametro, diceva che è il cielo a mutare per coloro che attraversano il mare, e non l’animo; lo stesso vale per gli affanni dell’anima dell’adolescente, che non riuscendo a superare il dolore causato dalla partenza definitiva dell’ amato fratello maggiore, prova a superarla attraverso una partenza in un nuovo Stato -che comunica allo spettatore attraverso un intimo monologo- ma nemmeno a lei è dato da sapere se riuscirà nel suo intento: quando il dolore c’è e non passa, te lo porti dietro ovunque, anche dall’altra parte del continente!

Oltre alla figura pregnante della ragazza, protagoniste di questo dramma sono, poi, altre due donne, altre due generazioni che sono l’una l’antitesi dell’altra: una nonna e una figlia- a sua volta madre di Rahel- che ne hanno vissute tante insieme, dagli spettacoli di cabaret alle manifestazioni socialiste guidate dall’ormai anziana Lin e , tutt’ora, si ritrovano a (soprav)vivere con tutte le loro contraddizioni, in un vortice di amore e odio, in un appartamento berlinese, all’ombra della caduta del Muro.
Si amano, si uccidono con una mezza parola che è peggio di una freccia imbevuta nel veleno, come solo una madre sa lanciare…e ancora si amano e si disprezzano e più si amano e più si rinfacciano i dogmi di un ebraismo ormai diventato un peso per entrambe. Tentano, invano, di lasciarsi ma non riescono a stare l’una separata dall’altra, sono l’una l’ossigeno per l’altra; solo la morte sarà in grado di separarle, ma solo apparentemente poiché un filo rosso le terrà per sempre unite.

Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985 a Volgograd nell’Unione Sovietica, vive tra Berlino e Instanbul, è scrittrice e curatrice del teatro Maxim Gorki di Berlino, ed è l’autrice di questo dramma, la cui regia è stata curata da Paola Rota, attrice di cinema e teatro, nonché regista di spettacoli prodotti dal Teatro Stabile di Torino, della Biennale di Venezia e del Teatro dell’Elfo di Milano.

 

Martina Di Nolfo

 

di Sasha Marianna Salzmann
traduzione Alessandra Griffoni
con Elena Callegari, Francesca Cutolo, Maria Roveran
regia Paola Rota
costumi Ursula Patzak
luci Camilla Piccioni
Teatro Stabile di Genova
Festival delle Colline Torinesi
PAV nell’ambito di Fabulamundi .
Playwriting Europe – BEYOND BORDERS?
con il supporto del programma dell’unione Europea Creative Europe e del Goethe Institut