Martedì 20 giugno, in occasione del Festival delle Colline Torinesi, va in scena alle Fonderie Limone lo spettacolo diretto da Massimiliano e Gianluca De Serio Stanze/Qolalka.
Lo ammetto: quando sono entrato in teatro e ho visto due leggii senza alcuna scenografia se non un paio di sedie, un cassone e due teli bianchi ho avuto paura. Temevo di risentire la classica storia sul quanto siamo cattivi e poco accoglienti noi occidentali nei confronti dei fratelli africani in un’accozzaglia di letture e video utili solo all’autocelebrazione di un’idea.
E invece? Invece i Fratelli De Serio hanno dato vitae spazio a storie forti e coinvolgenti raccontate da due immigrati e ora mediatori
culturali di nome Abdullahi e Suad che, pur non essendo attori, hanno portato in scena ciò che molti grandi professionisti (o presunti tali) italiani non riescono a trasmettere: la verità.
Sì, perché Abdul e Suad sono anche autori dello spettacolo e, per poco più di un’ora, hanno raccontato cosa è realmente la Somalia e di cosa tratta la loro cultura: tra poesia, religione, guerre, morti e un’instabilità politica tristemente nota a molti paesi africani.
La messinscena, come ho già accennato ironicamente, è essenziale: è evidente come in questo spettacolo giochi un ruolo da protagonista l’uso sapiente delle retroproiezioni dei Fratelli De Serio, non a caso – ottimi – registi cinematografici. I teli bianchi sono infatti mobili e vengono spostati dai due attori per creare delle stanze ogni volta differenti, arricchite da immagini, parole e sottotitoli, in un’alternanza di idiomi tra somalo e italiano, i quali finiscono per fondersi in un’unica lingua nella parte iniziale dello spettacolo, in cui le parole italiane vengono simpaticamente ”somalizzate” (ad esempio ”insalata” diviene ”ihynsalatah”) per aiutare il pubblico a prendere confidenza con una lingua, così come una cultura, apparentemente tanto diversa dalla nostra.
La domanda che ci si pone è: siamo veramente tanto diversi? La risposta non è importante, siamo esseri umani entrambi. Ma è innegabile che vi siano delle disuguaglianze tra il popolo italiano e quello somalo: ciò che salta immediatamente agli occhi è l’intensità dell’aspetto religioso. Questo è infatti molto presente nelle vite dei somali che continuamente durante lo spettacolo si rivolgono a Dio.
Inevitabile una riflessione sul testo, seppur buono, della rappresentazione: non c’è stata la volontà di spingersi ancora più in là di quanto si sia fatto per muovere delle accuse e portare delle testimonianze su quello che per la Somalia era ed è un vero e proprio ”cancro” che la divora dall’interno: lo jihadismo. Ho avvertito una necessità di dover mostrare solo il lato buono della cultura somala (cosa peraltro legittima) senza volersi mai addentrare nei fantasmi che hanno costretto centinaia di migliaia di persone a scappare per cercare un posto in cui vivere in sicurezza, lontani dalle bombe e dalla violenza gratuita delle minoranze belligeranti.
Esclusi Suad e Abdullahi, tutti gli attori siedono tra il pubblico e il senso di insieme tra platea e palco è palpabile, vista anche la scelta di luci che potrebbe risultare poco rischiosa ma anche funzionale allo spettacolo: il palco è sempre molto illuminato con un piazzato e, questa scelta, aiuta la distruzione della quarta parete come voluto anche per gli attori, i quali si rivolgono direttamente al pubblico e non recitano: raccontano.
I rimandi e le critiche al fascismo sono moltissimi. Un momento di fortissimo impatto emotivo è stata la stanza (o scena che dir si voglia) in cui si ricorda dei saccheggi e delle violenze perpetuati dagli italiani ai danni del popolo somalo negli anni del colonialismo. Quest’ultima mi è parsa una fondamentale chiave di lettura dello spettacolo: chi siamo noi per giudicare chi fugge da una guerra? Chi siamo noi per ostacolare chi cerca una terra diversa da quella che hanno calpestato per la prima volta? Dov’è finita la nostra umanità? La realtà è che una parte importante del nostro paese è composta da persone egoiste e attente a cercare un capro espiatorio che permetta loro di vivere felice. E’ stata quindi ottima la scelta degli autori e dei fratelli De Serio di sbattere in faccia la realtà a chi era in platea, di dire chiaramente le cose come stanno: ci lamentiamo di chi non ha niente e cerca qualcosa da noi ma, noi, che qualcosa lo avevamo, da loro ci siamo andati comunque. E il nostro aiuto non era richiesto.
Lo spettacolo si divide in tre momenti fortemente emozionanti: il racconto di un ragazzo somalo che, tramite un video, descrive la terrificante violazione dei diritti umani subita in un carcere libico; la testimonianza di una mamma come Suad dell’uso della poesia, la quale è fortemente presente nella cultura somala; il racconto di Abdullahi sul perché ha scelto di mettersi su un barcone e rischiare la vita e su quali sono i passaggi, le esperienze, i rischi concreti di chi sceglie di intraprendere questo pericolosissimo viaggio.
Molto interessante l’uso della tecnologia in tutto lo spettacolo, specialmente se abbinata alla tradizione somala: una volta le poesie (che, come già descritto, sono parte integrante della loro cultura) venivano tramandate oralmente, mentre ora i principali canali di diffusione sono Whatsapp, Viber, Facebook e Youtube. Questi ultimi, come testimonia Abdullahi, sono anche fondamentali nell’aiuto all’integrazione dei nuovi arrivati, i quali possono mettersi in contatto prima della partenza con chi ha già subito il calvario che li aspetta.
Abdullahi, infatti, racconta di come l’occidente sia visto come una terra promessa dai profughi africani ma, per una persona come lui che ce l’ha fatta, altre cento non riescono ad integrarsi e a trovare un motivo per vivere.
La colpa? Questo non ci è dato saperlo. Stanze/Qolalka è una straordinaria fonte di riflessione su quello che vuol dire integrarsi e sul come spiegare una cultura in modo fresco e a tratti brillante, oltre che emotivo e drammatico. L’auspicio è che la ricerca dei fratelli De Serio non si fermi qui e che si porti avanti questo progetto anche su altre culture apparentemente, e forse effettivamente, tanto lontane dalle nostre.
Luca Vincent Pecora