Per la seconda volta, a distanza di pochi giorni mi ritrovo ad assistere ad un nuovo spettacolo al Teatro Carignano. Questa volta si tratta di Sogno di una notte di mezza estate diretto da Elena Serra.
Il teatro, sia per Romeo e Giulietta che per Sogno di una notte di mezza estate si è prestato ad un mutamento scenografico, allargando il palco fino a metà spalti e ricoprendolo di erba sintetica, quasi come se fosse una vera e propria scena elisabettiana.
Se con Romeo e Giulietta rimasi entusiasta per la freschezza degli attori nel rendere la tragedia una visione fanciullesca, nel Sogno la compagnia si è superata. Questi giovani attori sono riusciti a dare un qualcosa in più.
Non è la prima volta che assisto alle loro rappresentazioni e man mano, spettacolo dopo spettacolo, emergono nuove sfaccettature del loro modo di lavorare .
Questa volta, quello che mi ha colpita è stata il senso di interezza che sono riusciti a far emergere da una delle più famose commedie di Shakespeare, rendendo le parti uniche nel loro genere. Visto che il testo non ha un unità di tempo o di spazio, la regista ha potuto sfruttare a pieno il palco, utilizzando enormi cuscini dai quali fuoriescono una buona quantità di foglie, inserendo una fontana da cui sgorga acqua dove alcuni attori si siederanno, si bagneranno e si uniranno in un unico corpo ed infine facendo muovere tutti loro in danze ritmicamente nevrotiche con la musica dei Laibach. Inoltre i costumi degli attori passano da una maestosità contemporanea ad una semplicità quasi medievale.
Sicuramente nelle parole di Elena (Annamaria Troisi) un po’ tutte le donne o prima o dopo si sono ritrovate. La sua disperazione per il rifiuto continuo del suo amato Demetrio (Christian Di Filippo), ogni volta che lo rincorrere non fa altro che peggiorare la situazione, mentre la vivacità di Ermia (Barbara Mazzi), il suo essere algida nei suoi confronti lo porta ad innamorarsi di lei ma la giovane Ermia ha occhi solo per Lisandro, il suo unico amore (Marcello Spinetta). Insomma vedremo un bel quartetto in azione.
Ogni attore, in questa rappresentazione ha cercato di creare un siparietto divertente, come quello di Oberon (Vittorio Camarota) insieme al folletto Robin (Raffaele Musella) che oltre ad essere tecnicamente encomiabili sono riusciti ad avere una buona presenza sul palco utilizzando capriole, sbeffeggiamenti e una timbrica maestosa.
Ottima anche Titania (Beatrice Vecchione) che rimarrà fissa sulla fontana ma questo non le impedisce di ammaliare con la sua presenza scenica e con le sue alterazioni vocali proprio come la fata, Fior di Pisello (Giorgia Cipolla) che vedremo addirittura cantare.
Ed il padre di Ermia, Egeo (Alessandro Conti) il quale avrà una voce robotica e sarà posizionato su una “balconata”.
Ed infine i due soldati di Atene Nick Bottom (Angelo Tronca) e Peter Quince (Yury D’Agostino) che hanno creato un siparietto niente male, inscenando all’interno della commedia, la tragedia di Romeo e Giulietta con un’ironia e un sarcasmo che ha coinvolto tutto il pubblico, suscitando impeti di applausi e calorose risate durante la rappresentazione.
Insomma il progetto del “prato inglese” direi che ha dato i suoi frutti, portando in questo caso nel Sogno di una notte di mezza estate il tocco di una donna che ha affrontato la commedia shakesperiana con un’inconscia visione di una metafora d’amore.
di William Shakespeare
con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti
regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Questa terra è malata. Il mondo della Grecia antica preso ad emblema del nostro mondo contemporaneo, passando dall’Antico Testamento alla Danimarca amletica, da un mondo in cui il dio è morto, arrivando, possiamo dire, anche alla Los Angeles di Altman. Il sacrificio come aeterna conditio del genere umano.
Carmelo Rifici mette in scena la tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide, attualizzandola, ma forse meglio dire universalizzandola. Lo spettatore viene spiazzato dalla presenza degli attori in scena a sipario aperto fin da prima che lo spettacolo cominci, e da un buio che si fa attendere. Il pubblico non si accorge subito dell’inizio, continuando la sua parte di disturbatore. Appena ritrova le condizioni “comuni” di uno spettacolo, presto si acquieta.
Uno spettacolo che ammicca al teatro di Brecht, nel proporre una riflessione su diversi temi a partire da Ifigenia, attraversando diversi autori che hanno inciso nella cultura della propria epoca e di quelle successive: Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Renè Girard, Freidrich Nietzsche, e la Bibbia per fare qualche esempio. Uno straniamento dello spettatore e allo stesso tempo dell’attore, che si percepisce fin da subito, quando l’attore che interpreta la parte del regista (Tindaro Granata), spiega al pubblico l’impostazione dello spettacolo. Un teatro nel teatro, dove gli attori vengo diretti da un regista e una drammaturga (Mariangela Granelli) nel mettere in scena prima l’uccisione di Abele da parte di Caino, e poi varie scene dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Ogni scena è intervallata da riflessioni del regista o della drammaturga, forse a volte un po’ scontate, rivolte al pubblico o agli stessi attori, che a volte non riescono a cogliere il senso di quello che stanno facendo. In questi intermezzi gli attori rimangono come sospesi in un altro tempo, mentre lo spettatore è portato a ragionare sul perché i Greci accettano di sacrificare una fanciulla innocente. Lo spettacolo non perde di ritmo in questi frangenti, un’energia che subito si sprigiona quando gli attori riprendono a recitare. Attori di grande intensità e presenza fisica, che appena sono chiamati in causa dominano la scena, come dei veri condottieri , uomini valorosi che si trovano davanti ad una scelta difficile: Agamennone ( Edoardo Ribatto) , Menelao (Vincenzo Giordano), Odisseo (Igor Horvat). Anche le donne non sono da meno, forse mostrano più fragilità, incredulità, arrendevolezza, con corpi minuti, ma dolci con movimenti più sereni, forse già arresi al destino rispetto a quelli degli uomini: Clitemnestra (Giorgia Senesi), che deve cercare di mantenere l’onore dei suoi figli, e Ifigenia (Anahì Traversi). Al coro delle donne del popolo, le donne di paese diremmo oggi, che mostrano ,da un lato una conoscenza semplice delle situazioni, ma sognatrice, che si fanno influenzare dalle circostanze senza rifletterci, e dall’altro una misteriosa preveggenza, portatrici dei caratteri di una società, è affidato il compito di commentare quello che sta accadendo ai Greci, e di attualizzarlo, il tutto con un ritmo incalzante. Se si va a conquistare le loro città e stuprare le loro donne, non possiamo lamentarci troppo se loro poi verranno a conquistarci, così una frase del coro.
La scenografia è quella semplice di una sala prove, qualche sedia, una scrivania per la drammaturga che in scena scriverà il finale e uno schermo, in cui sono proiettati video in presa diretta di scene che avvengono fuori dal portone principale, un luogo separato dalla realtà, dove accadono solo eventi di grande portata, come per esempio l’uccisione di Abele o il sacrificio di Ifigenia. La musica è dal vivo con il musicista Zeno Gabaglio che suona diversi strumenti, tra cui spicca il contrabbasso che accompagna con la sua musica grave le scene più accese.
Veniamo al sacrificio. La bonaccia che costringeva all’esercito greco di rimanere nei terreni paludosi della pianura di Aulide, e poi la guerra che avrebbero voluto intraprendere, sono solo un pretesto per sfuggire ai loro peccati, ai mali. Senza guerra si massacrerebbero tra di loro, ci sarebbero guerre fratricide. Quindi si decide, con un certo sollievo (Agamennone prova un po’ di sollievo quando prende quella scelta, l’esercito reclamava il sangue che gli spettava), di scaricare le proprie colpe su altri.
Un sacrificio per redimere la Grecia intera, forse potremmo anche azzardare un sacrificio che è una costante di ogni epoca, un mito di cui si ha bisogno per forgiare la propria cultura. Qualcuno che si carica su di sè gli errori dell’umanità. Se si libera il male, il male contamina come la peste le persone e se si uccide il minotauro bisogna pagarne il prezzo. Allora l’unica via di scampo è tornare a racchiudere il male. Ifigenia accetta una morte gloriosa per la Grecia, accetta il suo compito per evitare catastrofi ulteriori, come Gesù accetta la crocifissione assorbendo tutti i peccati. Al destino non si sfugge. Nemmeno un vecchio, simbolo dell’uomo qualunque tentando di salvare Ifigenia, si accorge della sua impotenza, l’impotenza dell’uomo di fronte al fatto. Ma perchè la dea vuole questo sacrificio? Gli dei sono esseri altri, imperscrutabili e a noi non è dato capire il loro scopo.
E qui si ricollega il senso ultimo dello spettacolo: la drammaturgia che non trova modo di far terminare la tragedia se non tramite il sacrificio di Ifigenia per dare un senso a tutta la vicenda, mentre per il regista il vero senso di questa vicenda umana, e quindi dello spettacolo, sta nel parlare di questo fatto per tentare di comprenderlo.
I classici sono sempre contemporanei, parlano anche al nostro presente; temi e miti fondanti della nostra umanità si protraggono fino ad oggi. Forse siamo impotenti davanti al divenire di certi voleri, ma a noi è dato il compito di riflettere, di capire, per poi poter avere una lieve forza per cambiare le situazioni. Far in modo che il sacrificio di Ifigenia, di Cristo e di ogni persona che viene cancellata per volere di una bomba, non sia stato invano e non si perda nella memoria del mito.
Emanuele Biganzoli e Roberto Lentinello
Produzione: Luganoinscena / in coproduzione con Lac Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro Milano – Teatro Europa, Azimut in collaborazione con Spoleto Festival dei due mondi, Theater Chur, con il sostegno di Pro Helvetia, fondazione svizzera per la cultura.
Ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari
Progetto e drammaturgia: Angela Demattè e Carmelo Rifici
Ho avuto la fortuna di svolgere il tirocinio presso il Teatro Stabile di Torino, seguendo come assistente allestimento la prima fase della creazione dello spettacolo Cuore/Tenebra: migrazioni da de Amicis a Conrad, in cartellone al Teatro Carignano dal 22 maggio al 10 giugno, con la regia di Gabriele Vacis e l’allestimento (o meglio, la scenofonia) di Roberto Tarasco.
Con questo articolo voglio condividere con i lettori del blog la mia esperienza in un mondo teatrale che non conoscevo e che ho trovato estremamente interessante e coinvolgente.
Da subito mi è stato chiaro che non si trattava solo della produzione di uno spettacolo nel senso stretto del termine, ma che questo sarebbe stato il risultato finale di un progetto più ampio.
Cuore/Tenebra infatti è il primo esito spettacolare dell’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona, un progetto ideato da Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi, sostenuto dal Teatro Stabile di Torino, la Regione Piemonte e la Compagnia di San Paolo.
Per comprendere l’esperienza dello spettacolo è indispensabile fare un excursus sul progetto da cui nasce.
L’Istituto di Pratiche Teatrali per la Cura della Persona propone un teatro sociale, basato sull’inclusione, dedicandosi alle tecniche che il teatro può offrire all’individuo, a prescindere dallo spettacolo e facendole confluire nella pratica della Schiera e nel teatro di narrazione.
La base per la cosiddetta salute personale è la consapevolezza.
In un mondo dove l’attività principale è il fare, non siamo più abituati a soffermarci ad ascoltare noi e le persone che abbiamo accanto, non siamo più in grado di prestare attenzione allo spazio in cui ci troviamo e alle relazioni che in questo spazio stabiliamo.
La parola chiave è Attenzione, e la pratica con la quale viene allenata prende il nome di Schiera, o Stormo.
Ispirandosi al volo degli uccelli, la pratica della schiera (apparentemente ma ingannevolmente facile), chiama in causa corpo, movimento e voce. Si tratta di ascoltare ciò che accade e farne costantemente parte, con la consapevolezza che chiunque può modificarlo in qualsiasi momento; di trovare un respiro comune, in cui si è parte di un coro, ma si è anche persona singola, si è parte di un gruppo ma si è anche protagonisti, consapevoli del fatto che le dinamiche e le relazioni cambiano costantemente.
Accanto all’allenamento dell’attenzione, la narrazione.
Ognuno di noi ha la sua storia, o meglio, le sue storie da raccontare e il palcoscenico si offre come il luogo dove farsi ascoltare. Un teatro per dare voce ai racconti.
A questo proposito l’Istituto porta avanti diverse attività tra le quali i colloqui con i migranti e i laboratori nelle scuole.
Mi ricollego ora con il progetto specifico Cuore/Tenebra, con il quale ho collaborato.
Lo spettacolo vede la partecipazione, oltre ad attori a tutti gli effetti, di un paziente del centro di salute mentale di Settimo Torinese, un ragazzo immigrato e sei scuole superiori di Torino e provincia.
Il punto di partenza sono i due famosi romanzi: il libro Cuore di Edmondo de Amicis e Cuore di Tenebra di Conrad.
Cuore, uscito nel 1886è da subito uno dei libri in assoluto più venduti, nel tempo elogiato o criticato, ma che non lascia di certo indifferenti. Forte la sua matrice pedagogica nel voler formare gli Italiani come popolo unito. Enrico, un ragazzino torinese delle scuole elementari, grazie al suo diario ci racconta l’Italia e le sue storie di ricchezza, povertà, amicizia ed immigrazione (dal sud al nord Italia).
Cuore di Tenebra, del 1899, è un libro di ben diverso spessore e complessità. Narra di un viaggio nell’Africa nera, raccontando le barbarie e le razzie compiute dalle potenze occidentali sul continente africano.
Lo stesso periodo storico raccontato dai due punti di vista: storie di colonialismo e immigrazione.
Sono queste storieche Gabriele Vacis vuole portare sul palcoscenico del Carignano, mescolate con i racconti dei ragazzi delle scuole superiori e le loro esperienze di vita. Il progetto infatti si sviluppa su due fronti: la creazione con gli attori e i laboratori nelle scuole.
Durante il mio periodo di tirocinio ho avuto modo di seguire entrambi i fronti, ma in particolar modo vorrei descrivere il lavoro svolto nelle scuole, poiché è questa esperienza a rendere cosi diversa la proposta di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.
Il principio fondamentale è che ai ragazzi non viene detto cosa devono fare e quando devono farlo, ma vengono allenati alla consapevolezza e al racconto. Da un lato praticando la schiera e ascoltando i testi (presi da Cuore e Cuore di Tenebra) che gli attori raccontano loro, dall’altro gli viene chiesto di ricordare ed elaborare delle esperienze personalia partire da spunti di riflessione nati da temi presenti nei libri, con lo scopo di creare un filo di collegamento tra i racconti di Enrico nel suo diario e la loro quotidianità scolastica: “Ricordi una volta che hai avuto davvero paura?”, “Quando ti sei sentito parte di un “noi”?”, “C’è stato un momento in cui ti sei sentito al sicuro?”.
Ogni classe si approccia in modo diverso, e in ogni classe ci sono ragazzini e ragazzine di ogni tipo: il bulletto che si rifiuta di fare le cose, il timido, quello a cui piace stare al centro dell’attenzione, il ragazzino veramente interessato a quello che si sta facendo.
All’inizio del percorso laboratoriale le differenze erano molto evidenti. Una cosa che mi ha colpito molto è stato vedere come man mano che il lavoro avanzava, i ragazzi hanno iniziato a capire l’importanza e soprattutto la bellezza di quello che stava accadendo, lasciando piano piano cadere le resistenze, trovando cosi il piacere di fare parte di questo progetto comunitario.
Di sicuro non è questo quello che si aspettavano quando gli è stato detto che avrebbero fatto parte di un progetto teatrale. Più di qualcuno nelle video interviste o nel loro Diario ha scritto “ci aspettavamo di dover interpretare qualche personaggio, e invece passiamo il tempo a camminare”.
E difatti è cosi: non c’è nessun personaggio da recitare, c’è da portare sul palcoscenico se stessi. E per portare sul palcoscenico se stessi bisogna imparare ad essere presenti, nel qui e ora, in relazione a ciò che accade e alla presenza dei compagni.
Lo stesso tipo di allenamento viene chiesto agli attori, in prova alle Fonderie Limone. Ad ogni attore sono assegnati dei racconti, ma oltre a questo, non esiste una drammaturgia precisa di ciò che deve accadere in scena. Esiste solo la verità del presente di ognuno, e sono queste verità che vanno a costruire lo spettacolo.
Concludo così, augurando una buona visione a tutti coloro che saranno prossimamente tra il pubblico del Carignano.
Al Teatro Carignano di Torino, dal 3 al 22 aprile 2018, è andato in scena Don Giovanni di Molière, uno spettacolo in prima nazionale diretto da Valerio Binasco, al suo esordio come direttore artistico del Teatro Stabile torinese.
Arriviamo al Carignano. Cerchiamo il nostro posto. Ci sediamo e attendiamo l’inizio. Le luci si spengono: ci siamo! Il palco è illuminato da una candela in scena. C’è un telo scuro, semi trasparente. Attacca un arpeggio di chitarra. È Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che accompagna la scena: Don Giovanni sta andando a caccia (di una donna). Lo scambio di battute è proiettato sul telo durante lo svolgimento dell’azione, quasi un omaggio al cinema muto.
Si tratta del prologo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, primo ideatore di Don Giovanni. Un inizio interessante, anche perché estraneo – quasi fosse un frammento a sé stante – per scrittura, interpretazione, modalità, toni e musica al resto della commedia.
L’opera di Molière, suddivisa in cinque atti, narra le (ultime) avventure di Don Giovanni, seduttore seriale ante litteram, e del suo servo Sganarello, sempre al fianco del padrone in ogni nuova impresa e conquista: da Donna Elvira fino alle “contadinotte” Maturina e Charlotte. I due protagonisti sono costantemente in fuga dalle ire dei fratelli della prima e dal promesso sposo di Charlotte. Per trovare riparo e un po’ di riposo, si rifugiano per la notte in un bosco, in cui si imbattono dapprima nei già nominati fratelli e in seguito nella statua del Commendatore che tempo prima Don Giovanni aveva ucciso. Provocata da Don Giovanni che la invita a cena, la statua risponde positivamente e si presenta l’indomani per trascinare il seduttore impenitente con sé nel mondo dei morti.
Don Giovanni, interpretato da Gianluca Gobbi, è spogliato e rivestito di una contemporaneità lontana dalla tradizione letteraria francese seicentesca. I suoi punti di forza sono fisicità e voce, potenti come un tuono. E’ un’interpretazione, sia da parte del regista sia del protagonista, insolita, originale, estremamente viscerale e corporea. Don Giovanni è uno spietato cacciatore di prede, estremo nel concepire il contatto amoroso solo all’interno di logiche di puro consumo. E’ sposato sì, con tantissime donne in ogni città, ma l’unico vero rapporto di fedeltà è con il suo servo, interpretato da Sergio Romano, che lo segue dappertutto, facendosi trascinare da un’avventura all’altra e provando ogni tanto a farlo ragionare, come una moglie sensibile e pacata farebbe con il proprio marito.
Un altro tema fondamentale è il rapporto con la religione e con la morte (approfondito a più riprese con l’omicidio del Commendatore, interpretato da Fabrizio Contri che veste simbolicamente anche i panni di Don Luigi, il padre del protagonista). Don Giovanni si fa beffe di due delle esperienze che fondano ogni esistenza umana.
Non manca, inoltre, l’intenzione di richiamare la tradizione italiana, quella basata sui dialetti, in particolare per le scene nella locanda con i promessi sposi Pierrot (Lucio De Francesco) e Charlotte (Elena Gigliotti).
Le peculiarità del Don Giovanni contemporaneo affiancate alla tradizione dialettale e musicale che incontriamo all’interno dello spettacolo sono cifre stilistiche di un regista che ha come suo primo obiettivo la comunicazione con il pubblico. Parafrasando le sue parole nell’incontro di presentazione dello spettacolo nel ciclo Retroscena: a Don Giovanni, come a qualsiasi classico che si rispetti, piace emozionare ed essere aggiornato.
«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» – Italo Calvino, Perché leggere i classici
Federica Beccasio
Riccardo Ezzu
di Molière
con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano
“Il teatro è una cosa dello spirito e un culto dello spirito”, così Louis Jouvet pensando al perché si fa teatro e che cosa spinge un attore a entrare in questo mondo misterioso e affascinante.
Brigitte Jacques traendo spunto dal saggio di Jouvet Molière et la comedie classique (1965, Gallimard), scrive questa pièce teatrale che si concentra su sette lezioni che l’artista francese fece stenografare tra il 1939 e il 1940. Toni Servillo dirige e interpreta l’apologo del mestiere dell’attore, entrando nella tecnica e nel pensiero di Jouvet.
In queste lezioni, che si svolsero tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia, l’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière. Un’avventura a due, maestro e allieva che si prendono per mano addentrandosi in un territorio oscuro, quello del personaggio. Un territorio da indagare fino in fondo per poter comprendere e dialogare con il personaggio, che va costruito passo passo, così che lo spettatore in scena al posto dell’attore veda il personaggio. Per giungere a questo il percorso è arduo, estenuante, ma necessario. Per Jouvet è dovere di una grande attrice arrivare a quell’emozione del personaggio.
In questa ultima scena Elvira è cambiata: non è più rancorosa a causa del tradimento di Don Giovanni. È come in estasi, in pace con se stessa. Va incontro a Don Giovanni, all’uomo che ha creduto di poter amare, come un angelo che scende lentamente con gli occhi pieni di luce ad annunciare qualcosa. E’ dunque una scena di annunciazione per Jouvet, in cui Elvira si accosta a Don Giovanni per supplicarlo di cambiare vita, altrimenti l’unico posto che lo accoglierà sarà l’Inferno. Tutto questo è detto pacatamente, quasi vergognandosi dei suoi momenti di ira precedenti. Torna da lui perché in fondo lo ama ancora, vuole salvarlo. Sarà l’ultima volta che si vedranno. Così la storia di Elvira e Don Giovanni si intreccia con la storia vera, di un maestro e un’allieva che per sette mesi hanno condiviso lavoro e passione, lezioni di vita e rimproveri reciproci, per poi perdersi e non incontrarsi mai più a causa della guerra e dell’occupazione nazista di Parigi.
Toni Servillo, nelle vesti di Jouvet, accentua la figura di un maestro le cui parole sono cariche di passione, emotività e tenerezza. È uno spettacolo fatto di sguardi e di silenzi, degli sguardi e dai silenzi da cui nasce la creazione. Può sembrare a prima vista uno spettacolo semplice, ma la grandezza sta nel rendere vive queste lezioni. Lezioni di recitazione, ma ancor più lezioni di vita. Sul palcoscenico accade la finzione, ma sul palcoscenico della vita ci aspetta quotidianamente e anche qui l’entrata e i movimenti devo essere quelli giusti.
Abbiamo la possibilità di vedere l’uomo, l’artista nel momento di più alto sforzo e tenerezza, il momento della creazione. Un momento grandioso e allo stesso tempo tenero, ma qui non si tratta di creare un oggetto, un materiale, ma creare il personaggio attraverso il corpo e le parole di un’attrice. Per arrivare al punto più alto, le paure e l’orgoglio vanno messi da parte, è necessario liberarsi mentalmente. Così storia umana e recitazione si intrecciano in un apologo del mestiere dell’attore che è anche una lezione di vita.
Emanuele Biganzoli
Di Brigitte Jaques
Da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet
Traduzione: Giuseppe Monetsano
Regia: Toni Servillo
Interpreti: Toni Servillo (Louis Jouvet), Petra Valentini (Claudia/Elvira) Francesco Marino (Octave / Don Giovanni), Davide Cirri (Leon /Sganarello)
Costumi: Ortensia De Francesco
Luci: Pasquale Mari
Suono: Daghi Rondanini
Aiuto regia: Costanza Boccardi
Produzione: Teatro Milano- Teatro D’Europa, Teatri Uniti
Dal 13 al 25 Febbraio al Teatro Carignano di Torino è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello, con l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi.
Enrico IV, uno dei testi più conosciuti e importanti di Pirandello, nella versione di Carlo Cecchi è la storia di un uomo che da vent’anni veste i panni dell’Imperatore di Franconia come inganno per simulare una nuova vita e come evasione dalla quotidianità e dalla realtà. Gli altri lo credono però pazzo e perciò lo assecondano in questa commedia per paura e per affetto, tanto da aver assunto degli attori come vassalli per fargli compagnia nella sua dimora, arredata e vissuta secondo gli usi del periodo storico in cui visse Enrico IV. Dopo ormai molti anni però gli amici decidono che l’uomo deve guarire, e portano al suo cospetto un famoso medico che dovrebbe riuscire ad aiutarlo: ovviamente l’incontro avviene con indosso costumi del periodo e sotto precisi pseudonimi storici, e il medico riesce così a fare una diagnosi. Ma durante un incontro con i suoi vassalli nella sala del trono l’Imperatore ammette di non essere mai stato malato e in questo modo tutti vengono a scoprire l’inganno. Nel finale, come è ben noto, Enrico IV uccide Belcredi. Ma la morte, e tutto il resto, è nella versione di Cecchi finta, perché come ricorda proprio il protagonista, devono tutti riprendersi per la prossima replica, catapultando così gli spettatori in una improvvisa e quasi inaspettata dimensione meta teatrale.
Il testo affronta i grandi temi della maschera, della follia e del rapporto tra finzione e realtà: l’uomo sfugge razionalmente ad una realtà che non ama e che non lo rappresenta, e questo è infatti l’emblema pirandelliano del legame tra maschera e realtà. Un altro tema importantissimo e che Cecchi ha voluto mettere bene in luce è quello del teatro e della recitazione stessa: lo si vede chiaramente nel finale dello spettacolo, ma anche nella motivazione data alla falsa follia dell’Imperatore, che egli spiega in un bellissimo monologo, fulcro dello spettacolo: la vocazione teatrale.
Nonostante tutti gli attori fossero molto bravi e incisivi, non poteva non spiccare la recitazione di Carlo Cecchi: la sua tipica cadenza napoletana restituisce verità alla sua interpretazione e fa sì che il pubblico avverta che in quel momento in scena, proprio sotto i suoi occhi, stia accadendo qualcosa di profondamente reale. La cultura popolare infatti si insinua nella sua recitazione e la renda spontanea, giocosa, ma allo stesso tempo grottesca: si accende negli spettatori una coscienza critica che permette loro di vedere con lucidità i vari argomenti che questa recita porta alla nostra attenzione. Il carattere antinaturalistico del suo teatro infatti è perfettamente visibile anche grazie ai suoi movimenti un po’ legnosi, agli abiti molto larghi utilizzati per richiamare l’elemento burattinesco. Spesso inoltre egli recita di spalle, rendendo un po’ difficile la comprensione delle sue parole agli spettatori, sottolineando così l’impossibilità della piena e compiuta realizzazione artistica, altro tema a lui molto caro.
Interessante la scenografia realizzata da Sergio Tramonti: molto efficace nel richiamare la finta atmosfera medievale con diversi oggetti di scena, come le armature, ma soprattutto decisiva nel creare un ambiente sospeso, quasi fuori da tempo, quando gli attori si trovano nella sala del trono. Essa infatti ha come fondale uno specchio che riflette tutto quello che sta accadendo in scena, le rivelazioni e le finzioni, rende visibili gli attori che si voltano di spalle, catapultandoci così in un ambiente menta teatrale e sottolineando le duplici funzioni che il teatro può avere.
a cura di Alice Del Mutolo
di Luigi Pirandello
adattamento Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Dario Iubatti, Federico Brugnone, Remo Stella, Chiara Mancuso, Matteo Lai, Davide Giordano
regia Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi luci Camilla Piccioni Marche Teatro
È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.
Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.
“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.
La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.
Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.
Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .
Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?
Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!
Martina Di Nolfo
Re Lear
di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo
Dio è morto. Ma quale Dio? Nietzsche lo ha constatato. Tutto il nostro mondo, la nostra cultura deve fare i conti con questa morte. Noi tutti, figli di Cadmo, lo abbiamo ucciso e la modernità ha preso il sopravvento. Siamo in grado di contrastare la sua rabbia feroce? Il teatro è ancora il luogo dove un dio può prendere vita?
Dopo Fedra di Seneca, partendo dalla domanda “Chi è Dioniso?”, il regista Andrea De Rosa prosegue la sia indagine sui classici, mettendo in scena un adattamento della tragedia di Euripide, Le baccanti, in data 5 dicembre 2017, al teatro Carignano di Torino. Una produzione Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli e Fondazione Campania dei festival.
Un linguaggio antico che parla alla nostra modernità, alle sue contraddizioni ed incongruenze. Il mondo di Tebe come metafora di una ipotetica metropoli di un mondo postmoderno, in cui si cerca di alienarsi dal mondo circostante, essere altro da sé.
Dioniso è colui che accompagna verso i confini dell’anima, confini che non si raggiungeranno mai. Spinge gli uomini ad abbandonarsi, a strapparsi di dosso la propria identità, costruita faticosamente. È un Dio portatore di doni: il vino, la droga, la danza, le allucinazioni, ma soprattutto il lenimento del dolore. Esperienze che vivono gli adolescenti. Per questo, Dioniso è un dio adolescente che si rivolge a loro. Gli adolescenti si trovano nella situazione di non sapere chi sono e in questa fase complicata, quel dio porta loro sollievo, unico modo per non sentire il dolore della crescita. Tematica più che attuale.
Dioniso è interpretato da una donna, l’attrice Federica Rosellini, già assistente alla regia di Luca Ronconi per Panico, attrice di molti spettacoli teatrali tra cui Santa estasi di Antonio Latella, e attrice di cinema premiata a Venezia. Una scelta che si è rivelata giusta. Si ha veramente la sensazione che Dioniso sia in scena. Capelli lunghi biondi che cadono sul seno coperto appena da una velo trasparente, e dei jeans scuri completano questo dio moderno che con la sua voce deve penetrare nelle persone, ammaliarle e comandarle verso l’irrazionalità più sfrenata. La scelta di Dioniso al femminile sottolinea meglio la natura bisessuale di questo dio e l’attrice riesce a condensare insieme la parte più femminea e fanciullesca del dio, con l’altra più violenta e feroce. L’insieme di questi due aspetti aumenta il livello di tensione erotica, che raggiunge il massimo grado nel rapporto tra Penteo e il dio. Un erotismo con una vena infantile, sì violento, ma anche ferito. Dioniso è un personaggio bestiale solo nella forma più genuina del termine: è stato strappato dal grembo materno e risente di questa mancanza.
Penteo allora è il suo doppio, con le sue ossessioni. Anche lui è privo della madre, Agave, preda di Dioniso, ormai a capo delle baccanti a condurre una vita istintuale e selvaggia. Sicuramente ha qualcosa di represso: tentato e pieno anche lui di Dioniso, vorrà vedere la madre posseduta. Penteo deve morire per aver osato mettersi contro il dio. Così questi lo punisce, ma non prima di avergli fatto provare l’abbandono dei sensi, l’irrazionalità, l’amore carnale, non prima di avergli fatto sentire chi è Dioniso. A interpretare Penteo è Lino Musella, non benissimo, perché viene accentuata troppo la parte influenzabile, corruttibile, repressa di un re che non sa fare il re, come se fosse un ingenuo che viene abbindolato dal primo venditore che vede. Manca, o meglio, è un po’ sbrigativa la congiunzione tra quando Penteo è un re che non vuole sottomettersi al dio, e quando invece cade preda di questi. Invece, reso molto bene da Dioniso-Rosellini l’atto di possedere il re, avvicinandosi lentamente e poi arrampicandosi con movimenti ferini sul trono per trasformarlo. Penteo in primis è un re di una grande città, Tebe, e per questo deve proteggerla dalla nuova “moda”, dal nuovo culto che si sta diffondendo a causa di Dioniso. Lui sa chi è, al contrario di chi ha perso coscienza di sé, è per questo è saldo, forte e non deve cedere al dio. Tuttavia, verrà anche lui ammaliato perché Dioniso agirà sul suo lato più insicuro, rivelando a Penteo il suo bisogno di perdersi. Tale passaggio poteva essere reso con più efficacia. Infatti, solo l’atto finale di questa trasformazione è reso bene, con Penteo che, vestito con abiti da donna, va verso la morte per la propria curiosità, mentre Dioniso, seduto sul trono di Tebe, osserva il suo prodotto e si prepara a finire la sua vendetta.
Gli altri personaggi Cadmo e Tiresia, rispettivamente Ruggero Dondi e Marco Cavicchioli, sono due figure grottesche, due furbi. Il primo è pronto a trarre profitto da questo nuovo culto di Dioniso e il secondo è un opportunista. Incitano il popola a perdersi, e danzano mentre si compirà la tragedia. Sono dei finti folli contrapposti ai veri folli, come Penteo o la madre Agave, interpretata da Cristina Donadio. Una madre che uccide il figlio, posseduta dal dio, in una caccia di belve tra belve. Una testa cullata tra mani, trofeo di guerra, protetta e riconosciuta solo dopo il parto. Una madre che partorisce un figlio. Morto. Questo parto è un parto di Dioniso, del dio, un parto morto, una metafora per dimostrare come noi nasciamo già morti, ma anche metafora ribaltata della condizione di un dio che è morto. Un parto non molto chiaro nell’immediato, ma a cui una riflessione successiva contribuisce a dare forza espressiva e semantica. “Agave la si può immaginare come le ragazze madri, o le donne degli anni ’70, dove non c’erano limiti”, ci dice l’attrice Cristina Donadio. Alla fine, Dioniso dirà basta e tornerà al suo mondo selvaggio.I personaggi non hanno un carattere vero e proprio, sono follia, maschere. Dioniso offre a tutti la possibilità di mascherarsi. Non ci sono caratteri, ma solo corpi. Corpi seminudi, sporchi, insanguinati, vestiti con indumenti trasparenti e color carne altrettanto sporchi, tacchi al posto degli zoccoli: la natura selvaggia di questi corpi è evidente.
Lo spettacolo inizia con Dioniso che si presenta, mentre dispensa piacere con la sua voce ammaliatrice, come se fosse un cantante su un palco di un rave party mentre canta e urla in un escalation sempre più forte, e la sue baccanti ballano, perse, fino a che hanno forza. Dioniso è il marionettista che con la sua voce, il vino, la droga, fa danzare le sue marionette. In fondo al palco si intravede il rito, l’orgia in onore di Dioniso. Una parete fatta di casse acustiche rimanda la musica allucinatoria di Dioniso. Un suono di basso continuo che dura per quasi tutto lo spettacolo, interrompendosi solo quando Penteo viene ucciso, ma che poi ricomincia, perché la musica di Dioniso non termina mai. Un suono ossessivo che investe anche lo spettatore e lo fa immergere in quel rito che si sta compiendo sul palcoscenico, fino al punto di non accorgersi più di quella musica. Lo spettacolo è tutto giocato sul ritmo e gli attori recitano in modo antinaturalistico seguendo sempre il tempo della musica. Così come è arrivato a Tebe, ora Dioniso se ne va, dopo aver compiuto la sua vendetta contro un re e un popolo che hanno osato sfidare il dio, peccando di “ubris”. Nulla può fermare Dioniso, perché tutti hanno bisogno di lui.
Un adattamento ben fatto e non didascalico, in cui emerge con chiarezza il paragone con il nostro mondo. Una tematica attuale: noi siamo tentati da vari rimedi facili per alleviare il nostro dolore e abbiamo bisogno di estraniarci dalla razionalità, dalla realtà che ci circonda per fermare per un attimo un tempo che ha visto la morte di Dio causata da noi stessi. Dioniso è in noi, lo abbiamo reso indispensabile.
Emanuele Biganzoli
Autore: Euripide
Adattamento e regia: Andrea De Rosa
Attori: Marco Cavicchioli (Tiresia), Cristina Donadio (Agave), Ruggero Dondi (Cadmo), Lino Musella (Penteo), Matthieu Pastore (Messaggero), Irene Petris (Coro), Federica Rosellini (Dioniso), Emilio Vacca (Messaggero), Carlotta Viscovo (coro), allieve della scuola teatrale del Teatro Stabile di Napoli Maria Luisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei (Coro)
Scene: Simone Mannino
Costumi: Fabio Sonnino
Luci: Pasquale Mari
Musiche originali: G.U.P. Alcaro e Davide Tomat
Produzione: Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli, Fondazione Campania dei Festival
Il sipario si apre, ci accoglie una scenografia semplice e spoglia, con un velato e malinconico color viola-blu. Due figure sedute su due sedie vicine, un uomo e una donna. Aldo legge dei fogli con un’aria incupita. Solo qualche battuta più avanti si capirà trattarsi di una delle tante lettere di sua moglie, Vanda, la donna accanto a lui. Le parole su quella carta risuonano dalle labbra di lei, parole che rappresentano lo sfogo di anni di sofferenza e frustrazione. “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie.”. Più la sua voce si fa sofferente e il dolore più forte, più le sedie si allontanano.
La scena cambia ed emerge un senso di apatia e smarrimento. La scenografia prende un aspetto diverso, si tinge di chiaro e diventa più fredda, sterile. Un grande salone disordinatissimo con delle altissime mura tutte bianche, quasi fossero fatte di gesso. Tra i tanti oggetti e tra le pagine dei libri buttati per terra, riaffiorano anche vecchi dolori e verità mai confessate. La casa diventa la metafora della famiglia con tutti i suoi disastri e le sue rovine. È da qui che tutto parte.
Il tema di Lacci è la storia di una relazione matrimoniale fallita con le rispettive dinamiche famigliari che ne conseguono e le varie ipocrisie su cui molto spesso essa si basa. È senz’altro un argomento che prende al cuore ogni spettatore in sala. Ognuno, almeno una volta nella vita, ha rivestito la parte del compagno ferito e tradito o, al contrario, di colui che vuole tener segreto un amore proibito. Ci si trova partecipi ma allo stesso tempo giudici, senza mai riuscire a prendere le parti di un personaggio preciso. Amanti, fratelli, figli e compagni di vita, tutti ci ritroviamo immersi da quella che si può definire una “tragedia contemporanea”. Proprio nei tumultuosi anni sessanta, ani di forte cambiamento, Vanda, interpretata da Vanessa Scalera, e Aldo, interpretato da Silvio Orlando, si sposano e dopo pochi anni diventano genitori. Più gli anni passano più lui si sente oppresso dall’idea di invecchiare e con il suo animo da ragazzino decide di trasferirsi a Roma per poter vivere la freschezza di un amore nuovo. A differenza della moglie che da subito ci trasmette il suo attaccamento, a volte quasi morboso, alle piccole gioie della vita quotidiana. Donna forte, legata al senso della famiglia e ormai consumata dai sacrifici per di mantenere da sola i suoi due figli. Ripetute sono le sue lettere indirizzate al il marito che dopo anni riescono ad avere risposta con il suo ritorno, dovuto in realtà solamente al senso di colpa. Per lui il matrimonio si dimostra essere un labirinto dal quale si sente intrappolato e. Infatti i “lacci” legati simbolicamente indicano sia quell’azione quotidiana che Aldo inconsapevolmente insegna a suo figlio, sia quel legame, quel vincolo così consueto da essere inavvertito, che può arrivare ad essere soffocante. Sicuramente le ossessioni di una donna ormai non più spensierata e le difficoltà dei figli non aiutano questa sua condizione. Eppure è proprio lui ad ammettere che in fondo anche loro due sono stati felici ma poi forse si sono abituati alla felicità fino a non sentirla più.
Si avverte benissimo lo scontro generazionale tra i genitori e i figli. I genitori cresciuti in un’epoca di grandi cambiamenti, dallo spirito libero e increduli di dover accettare a volta l’impossibilità di essere felici. I figli (Maria Laura Rondanini e Sergio Romano) abituati al non-amore, cresciuti con paure e ossessioni, si armano della solita scusante: “Non è colpa mia! L’ho preso da mia madre..”. Saranno poi loro che si prenderanno la tanto desiderata rivincita.
Il testo teatrale è adattato da Domenico Starnone dal suo omonimo romanzo e mette bene in evidenza quei meccanismi di distruzione reciproca che si vanno a creare talvolta nel matrimonio senza che nessuno dei due coniugi se ne renda conto. È un testo classificabile certamente nella categoria del dramma familiare. Starnone nell’adattamento del testo letterario alla drammaturgia scenica opera una trasposizione forse un po’ troppo fedele che appesantisce l’andamento della storia e, più in generale, l’azione dei personaggi, nonostante lo spettacolo sia stato arricchito da qualche intermezzo comico e battuta divertente. In realtà infatti, in scena succede poco, si tratta più che altro di ricordi del passato. Tutti gli attori comunicano allo spettatore il senso del dramma e la loro aderenza al personaggio anche se, ai miei occhi, un approccio più sentito avrebbero reso il lavoro più forte e avrebbero permesso allo spettacolo di lasciare maggiormente il segno.
Mercoledì 22 novembre, serata in cui ho assistito allo spettacolo, gli spettatori hanno comunque dato prova di essersi divertiti e di aver apprezzato. Durante gli applausi finali molti spettatori sui loggioni si sono alzati in piedi e la commozione di Silvio Orlando era evidente. È sicuramente una bellissima emozione poterlo vedere come interprete di Aldo. Un personaggio dal comportamento in fondo molto comune ma arricchito dallo stile “buffo” di questo grande attore.
In scena al Teatro Carignano di Torino dal 14 al 26 novembre 2017
Si sono da poco concluse le repliche di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, andato in scena dal 31 ottobre al 12 novembre al teatro Carignano di Torino per la stagione del Teatro Stabile.
Regista Liliana Cavani che, per la prima volta, si cimenta nel teatro di prosa scegliendo di rappresentare uno dei testi più significativi del nostro Novecento.
La Cavani decide di restare aderente al testo, evitando voli di fantasia che sarebbero risultati poco coerenti con l’ idea di Eduardo.
Nei panni della protagonista, ad incarnare perfettamente , con i suoi capelli scuri e le forme generose, la figura della donna partenopea, troviamo Mariangela D’Abbraccio.
Alternando scatti d’ ira degni di Santippe (apprezzata la sonora sberla ai danni di Diana – Ylenia Oliviero, amante di Don Domenico) ad emozioni strappalacrime,come quelle che inevitabilmente colpiscono l’ animo dello spettatore che, coinvolto, ascolta il monologo della Madonna delle Rose, la D’Abbraccio ci restituisce, forse con un pizzico di drammaticità in più, l’immagine delle rappresentazioni passate, tanto fedele quanto lo sono le scelte registiche .
Al suo fianco, impegnato a ripercorrere le orme del maestro, Geppy Gleijeses che ricopre il ruolo di Don Domenico Soriano.
L’attore napoletano fa arrivare direttamente al pubblico un profilo ben delineato del personaggio, scivolando, ogni tanto, in contrappunti cabarettistici che la simpatia del dialetto e le battute ben congeniate rendono superflui.
Lanciandosi nel viale dei ricordi fatto di viaggi, amoretti e corse di cavalli, Don Domenico, dovendo fare i conti con il passare degli anni, affronta un percorso di maturazione che deve la sua genesi al meccanismo azione/reazione scatenato dal primo matrimonio con Donna Filumena, estortogli con l’ inganno.
I maggiori responsabili di questo cambiamento sono i tre figli di Filumena interpretati da Agostino Pannone, Gregorio De Paola e Adriano Falivene, ai quali Don Domenico, emozionandosi nel sentirsi chiamare papà, consegnerà le redini di quei cavalli che un tempo correvano per lui.
La D’Abbraccio e Gleijeses si spalleggiano bene, giocando a rubarsi la scena e sostenuti da due personaggi secondari ai quali il testo regala una comicità irresistibile, Rosina (Nunzia Schiano) e Alfredo ( Mimmo Mignemi), che si prestano bene a far comprendere al pubblico le incomunicabilità derivate dal contrasto tra i due protagonisti.
Compito gradito anche per le difficoltà generate dal dialetto napoletano in terra piemontese. E’ infatti consigliata una lettura peventiva del testo o una lunga vacanza a Napoli a tutti coloro che non hanno confidenza con il dialetto campano, onde evitare l’irritazione dei vicini di poltrona ponendo continuamente la domanda “che hanno detto?”.
Divergenze linguistiche a parte, il pubblico, soprattutto quello femminile composto sia da chi è madre sia da chi non lo è, reagisce bene alla commedia, identificandosi con facilità con la figura della donna che si sacrifica per un bene più grande: un lavoro, un uomo, una passione, così come per Filumena sono indifferenti i suoi figli, perchè ” i figl so figl e so tutt’egual”.
Emily Tartamelli
Il blog degli studenti di teatro del D@ms di torino