Dopo il successo del 2016 torna al Teatro Carlo Felice di Genova la Traviata di Giorgio Gallione, con allestimento di Guido Fiorato e coreografie di Giovanni Di Cicco. Il successo verdiano, che due anni fa venne diretto da Massimo Zanetti e vide, lo ricordiamo, una giovane e talentuosa Maria Mudryak nel ruolo di protagonista, per questa ripresa è stato affidato al direttore d’orchestra australiano Daniel Smith.
Traviata debuttò il 6 marzo del 1853 al Teatro La Fenice di Venezia, con un libretto di Francesco Maria Piave che, riprendendo La signoria delle camelie di Dumas, cercò di spostare sensibilmente il confine della moralità, come amava il pubblico dell’epoca. Dalla mondanità parigina, fatta di feste licenziose e lieti calici, il testo attraversa un ambiente domestico di campagna, relativamente pacato e felice, per approdare infine, senza pietà, al letto di morte di una donna che ha scelto di sacrificare se stessa alla gioia del suo amato. Per la borghesia ottocentesca non poté che rivelarsi un cult, destinato ad entrare immediatamente nella storia del melodramma.
Se in Traviata dunque immoralità e rettitudine si scontrano nella personalità della protagonista, questo emerge innanzitutto dal libretto e dalla partitura musicale: di più difficile gestione è senza dubbio il piano scenico. Dai festini borghesi al giaciglio della malata, molti sono i caratteri che attraversano l’ambientazione dell’opera, e che più registi hanno ritenuto possibile dipingere di una tonalità onirica. Tra questi troviamo Giorgio Gallione che scrive: “Forse Violetta muore già nel preludio e l’opera è tutto un allucinato flash back visionario e spettrale”.
Tuttavia, mentre la regia rimane pressoché classica, a non convincere è l’allestimento moderno di questa Traviata che, muovendosi sul filo del cattivo gusto, “modernizza” gli ambienti dell’opera come a voler scandalizzare senza scandalo, in un luogo sterile e banale. I salotti parigini diventano tendaggi di bicchierini appesi, calati didascalicamente in prossimità del celebre brindisi intonato da Alfredo, la casa di campagna si trasforma in un ludico tappetone di mele finte, alcune delle quali ruzzolano appositamente verso il basso, causa il palco aggettante, arrestandosi contro una piccola balaustra prima di finire nel golfo mistico. Un albero caratterizza più di ogni altro elemento la scenografia, bianco, spoglio, agghindato con piccole candele. Nel primo atto questo troneggia in mezzo al palco e Violetta, coraggiosamente issata su dai mimi, canta una parte arrampicata su di esso. Un altro albero, identico, ma questa volta calato dal soffitto, disegna il secondo atto, in cui i ruoli sociali e sentimentali si ribaltano, modificando tragicamente il corso degli eventi. Infine, nel terzo atto, un colpo di scena: l’albero giace riverso a terra. A pochi centimetri da questo, sdraiata sul pavimento vitreo, Violetta fronteggia la tisi.
Ma basta davvero un albero mobile a fare di questa traviata una traviata simbolista? Se come dice il regista le traviate devono essere sublimi e volgari, va detto che sul piano scenico questa non pare né sublime né volgare. Tutt’al più, citando ancora Gallione, “una tragica carnevalata”, che, nel tentativo di rivitalizzare una pietra miliare della cultura italiana, rischia di farne nient’altro che una tenue parodia.
Per quanto concerne l’interpretazione è stata molto apprezzata Marta Torbidoni, il soprano italiano che ha sostituito Irina Polivanova, originariamente scritturata per la parte di protagonista. Fra le tre personalità di Violetta è probabilmente la terza quella che la Torbidoni interpreta al meglio, dolce e commovente. Altrettanto valido il baritono Mansoo Kim nel ruolo di Germont padre, che è solito raccogliere un forte successo nella serata con l’aria Di Provenza il mare, il suol. Ottimo il lavoro del Coro e dell’Orchestra del Teatro Carlo Felce.
Il coreografo Giovanni di Cicco ha realizzato una buona scrittura di danza, funzionale alla produzione. I suoi danzatori, eterogenei e duttili, spaziano dalla pantomima alla contact, gestendo molto professionalmente l’accoppiata tacchi/pavimento inclinato. Molto convincente il solo di danza che apre l’ultimo atto: l’interprete Melissa Cossetta, alter-ego della protagonista, esegue una coreografia lenta ed espressiva che ricalca nota dopo nota la condizione dolente del preludio. È il riscatto di un corpo danzante dopo gli abusi cui è sottoposto dal libretto nell’atto primo e secondo, notoriamente dediti ad una marcata esteriorità, tutt’altro che intima.
Il teatro ha registrato un pienone per lo più giovanile di non addetti ai lavori che, nonostante nel breve cambio scena del secondo atto si alzassero dai loro posti per fare intervallo, dà comunque una gran gioia vedere a teatro.