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IL BALLO

Un’attrice, 5 voci, tanti specchi.

Sonia Bergamasco porta sulla scena del Teatro Gobetti una favola nera di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origine ebraica vittima dell’olocausto.

E’ la storia di Antoniette, una ragazzina quattordicenne, figlia di ebrei arricchiti, trascurata da una madre troppo narcisista ed egoista per preoccuparsi di lei.

Finalmente la madre ha ottenuto la ricchezza tanto desiderata e può permettersi di dare il primo ballo, che le aprirà le porte al suo debutto in società. Ma Antoinette viene esclusa: non può parteciparvi, e tanto meno rivolgere la parola a qualcuno. Chiusa in camera. Quello è il suo posto.

La ragazza allora compie il suo atto di vendetta: in un attimo d’ira getta nel fiume gli inviti, così che nessun nobile lo riceverà mai.

E’ il giorno del ballo: il tavolo è imbandito con pietanze di ogni tipo, la sala addobbata a festa, l’orchestra pronta per suonare. Ogni cosa è predisposta per accogliere la più alta società.

Ma non arriva nessuno. Solo la vecchia cugina, presenza non gradita dalla madre, ha ricevuto il biglietto a mano, e si trova ad essere partecipe di quest’immensa umiliazione.

Di fronte alla disperazione, la figlia, col viso nascosto tra le braccia della madre in lacrime, ride. La vendetta è stata compiuta.

Sonia Bergamasco porta in scena con un’interpretazione magistrale il racconto in tutta la sua spietatezza, dando voce ai 5 protagonisti: Antoinette, la madre, il padre, l’educatrice e la vecchia cugina.

Come scrive la stessa Bergamasco è una storia “di vendetta e di disamore; (..) il teatro di un bambino solo che costruisce il suo mondo, perchè il mondo conosciuto (quello degli adulti) non è bello e non gli piace”

Ed è questo che noi vediamo: una figura esile e bianca, che si muove sola, in un palcoscenico pieno di specchi, in cui si è costretti a guardare e guardarsi: in cui madre e figlia sono costrette a rispecchiarsi.

Ma la storia di Antoinette è molto più di questo: “è l’arma di vendetta di una scrittrice che sempre, in ogni sua opera, ricorda e non perdona. La scrittura come arma, scoperta molto presto da Irène, proprio contro quella famiglia, quella madre che non aveva saputo amarla.”

Lara Barzon

Racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a 
Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

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“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro