“È possibile cambiare il mondo di qualcuno dal di dentro?”
Marta Cortellazzo Wiel porta in scena, in prima nazionale, al Teatro Gobetti di Torino, uno dei testi della Trilogia della bellezza, scritta da Neil LaBute, La forma delle cose. L’incontro tra un’artista e uno studente, nonché guardia di un museo, sarà la genesi della depersonalizzazione di quest’ultimo, sempre più dipendente e manipolato.
“Son tornato a teatro, in platea, da qualche annetto insomma. Vado a vedere Eduardo e basta”. Questo lo diceva Carmelo Bene alle telecamere della Rai, durante un’intervista risalente alla metà degli anni Settanta. Interessante pensare come dietro a quel nome proprio, menzionato in moltissimi casi senza il cognome, si apra tutto un mondo che va a rappresentare un pilastro portante della cultura teatrale e napoletana. Quando C.B. dice “vado a vedere Eduardo” chi ascolta sa, senza ulteriori precisazioni, di quale Eduardo si parla, e percepisce il peso che sta dietro a quel nome detto così alla veloce. Tale è l’impatto, l’impronta che l’operato di Eduardo De Filippo ha lasciato sul teatro italiano.
Liv Ferracchiati è in tournée col suo ultimo spettacolo “La Morte a Venezia”. Questa volta si porta dietro una performer molto brava, Alice Raffaelli, attrice e ballerina ( dal 2015 si affaccia al mondo della prosa grazie alla collaborazione con la compagnia The Baby Walk, continua ad esplorare la scena legata al teatro di parola con Antonio Mingarelli. Nel 2018 è tra le finaliste del premio Ubu, categoria miglior performer under 35…).
Non si tratta di un adattamento teatrale de La morte a Venezia, ma di un percorso scenico liberamente ispirato alla novella di Thomas Mann. Chissà cosa potrebbe pensare …”Was ist das! dopo Luchino Visconti e Benjamin Britten arriva questo giovane regista e mi usa come spezzatino mettendo in scena solo il contorno alla mia novella, e meno male che non si chiama Gustav…”
Il sipario è aperto, tre grandi teloni ricordano i rivestimenti dei gazebo balneri belle epoque: null’altro. Il lavoro inizia con un fade in su una poesia di Josif Aleks. Brodskij “ In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni…” per poi lasciar apparire una foto di una ciotola di fragole. Una voce femminile narrante sibila e vibra il suono delle frrr…in questo mondo di frrr…di …agole. La causa del decesso viene subito messa in evidenza dalla voce narrante, che qui è onnisciente diegetica per tutta la durata del dramma. Il piatto di fragole è l’affordance non nascosta, si sa subito come agirà col personaggio.
Poco dopo sale sul palco Gustav von Aschenbach che viene accompagnato dalla voce narrante sotto un cielo scialbo a Venezia. Prende la videocamera e la punta verso il pubblico fino a zoomare su una ragazza seduta in terza fila, è Tadzio; non la perde di vista fino ad invitarla sul palco, nulla esiste di più erotico che due persone che si vogliono solo tramite lo sguardo. C’è l’incomunicabilità nello spettacolo, anche se la parola fa da padrone in tutta la scena.
La narrazione, le musiche che si dissolvono e s’accompagnano, la danza sono i tre elementi che caratterizzano la performance mentre tutto viene filmato da Gustav che segue la danza di Tadzio, la guarda a distanza ma si avvicina con l’obiettivo di prolungare la vista in maniera epidermica per provare più piacere. Le linee del corpo sono un messaggio sensuale ma anche imbarazzante per lui. La telecamera diventa carne e parla con lei (o lui ). Lo si capisce passo dopo passo che lei vorrebbe essere toccata, magari baciata ma Gustav non vuole, ha paura, sente brividi sulla pelle, vorrebbe toccarla ma si ferma, si blocca per non sentirsi turbato.
Va avanti così la performance, simulando la fine della vita umana secondo Gustav, con un continuo suono in sottofondo che prelude alla morte, senza difese e nudo. Vuole essere così perché Tadzio non parla la sua lingua, non si comprendono nemmeno quando lui si siede sulla poltrona da barbiere. Lei prende la videocamera e zooma sul viso per poi imbiancare la sua faccia dipingendo una lacrima blu sospesa: musica in dissolvenza, sentiamo il rumore del mare in sottofondo e infine in fade out di nuovo apparire sul telone un’altra poesia di Brodskij “Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi la torbida pupilla…”
Thomas Mann scriveva: “nelle parole non dette la solitudine genera la strana ed inquietante bellezza, la poesia, ma anche il contrario: l’assurdo, l’illecito…” Un’amore platonico si traduce in morte assistita. Proprio la morte di Gustav avviene in una città dove il colera avanza, qui preso e metabolizzato dalle fragole. Chi muore è colui che osserva, Aschenbach, e con lui si estingue lo sguardo afono verso Tadzio.
Il primo personaggio è la Danza che fluttua sulla percezione dello sguardo, il secondo personaggio è lo Sguardo dove c’è il guardare e l’essere guardati; poi c’è il terzo personaggio che è la Parola, degnamente interpretata dalla voce di Weronika Młódzik che la fa da padrone a tutta la piece cercando il disorientamento del pubblico ma anche accompagnandolo a danzare lungo il percorso del dramma.
Cito da un’intervista del giornalista Raimondo Montesi del Carlino:
R.M. “E’ davvero solo un rapporto ‘visivo’ quello che si crea tra i personaggi?”
L.F. “I due non si toccano mai. Anzi, non sappiamo neanche se Tadzio si accorge di Von Aschenbach, nel senso che non sappiamo cosa pensa di lui. Il ragazzo tra l’altro parla una lingua sconosciuta a Von Aschenbach, visto che la sua famiglia è polacca. In compenso in scena va il linguaggio del corpo vista la presenza della danzatrice Alice Raffaelli.”
R.M. “Cosa rappresenta nel suo percorso artistico questo spettacolo?”
L.F. “E’ un lavoro diverso dal solito. lo di solito ho a che fare di più con la prosa. ‘La Morte a Venezia’ mi ha coinvolto molto, e mi ha fornito possibilità di scrittura differenti. Nei miei spettacoli precedenti, poi, c’era una forte vena ironica. In questo caso c’è più liricità”.
Ha ragione, la liricità della narrazione continua fino al suo lungo monologo monosillabico per poi morire tra le onde paragonate alle lacrime amare della vita. In effetti nella piece c’è un aspetto performativo dal contenuto drammatico, l’artista ha voluto realizzare una libera interpretazione dell’incomunicabilità dell’essere umano usando come risposta alle sue domande il testimone del processo creativo, ovvero il dramaturg.
Liv Ferracchiati, artista associato del TST, tornerà a Torino ai primi di aggio del 2025 con lo spettacolo Stabat Mater.
Luigi Rinaldi
ispirato a La Morte a Venezia di Thomas Mann drammaturgia e regia Liv Ferracchiati con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli movimento Alice Raffaelli dramaturg Michele De Vita Conti aiuto regia Anna Zanetti, Piera Mungiguerra assistente alla drammaturgia Eliana Rotella scene Giuseppe Stellato costumi Lucia Menegazzo luci Emiliano Austeri suono Spallarossa voce di Tadzio Weronika Młódzik consulenza letteraria Marco Castellari Spoleto Festival Dei Due Mondi, Marche Teatro, Teatro Stabile Dell’Umbria Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini In collaborazione con Fondazione Piccolo Teatro Di Milano – Teatro D’Europa
Nella Sala Pasolini del Teatro Gobetti è andato in scena lo spettacolo Hannah.
Il monologo, che vede la drammaturgia di Sergio Ariotti, è interpretato da Francesca Cutolo. L’intento è quello di raccontare la storia di Hannah Arendt, filosofa e politologa tedesca che ha concentrato i suoi studi sui meccanismi dei totalitarismi, risalendo alle cause ed evidenziando le conseguenze di certi eventi storici.
CENCI- rinascimento contemporaneo, tra passioni e crudeltà
Torino, 15 ottobre 24, ore 19:30. Teatro Gobetti – Festival delle Colline Torinesi: Cenci, rinascimento contemporaneo Suoni stridenti, un motivetto rinascimentale risuona nel teatro. Il racconto si avvia come eco e ricordo proveniente da una tomba. Maschere fisiche e metaforiche danno inizio alla rappresentazione cupa e tragicomica ambientata a Villa Panfili nella Roma di fine Cinquecento. Un’aria inquietante attraversa la platea, il gelo di una storia brutale sembra fermare il tempo e tenere tutti in sospeso.
Per dissotterrare il sentimento e farci udire l’urlo di dolore, l’immedesimazione (dell’attore nel personaggio e dello spettatore nel personaggio) è l’unica via percorribile? Non riesco ad abbandonarmi al sentimento: ecco, forse, la dimensione politica di Cenci. La denuncia è fortissima, certamente. Ma se per pungolare le coscienze e scuotere gli animi fosse sufficiente la cronaca dei fatti (il “che cosa”) allora perché ricorrere a quello strumento, potente e pericoloso, che è il teatro? Basterebbe un testo ben scritto sulla storia di Beatrice Cenci. Il punto è che qui a essere politico è il “come”, cioè il modo in cui Piccola Compagnia della Magnolia sceglie di restituire la vicenda sulla scena.
Quattro bizzarri personaggi accomunati da un infelice fil rouge danno vita a La signora del martedì nella sua prima replica torinese al Teatro Gobetti: sono anime sconfitte, poste ai margini della società a causa di errori personali, sventure o ingiustizie ricevute.
Fantasmi della memoria e un oscuro passato vengono risvegliati nel corso della commedia-thriller rivelando contraddizioni e forti passioni celate. Chi paga rapporti sessuali all’insegna della propria indipendenza, chi ricatta per ossessione, chi si trasforma continuamente per affermare la propria identità, chi tradisce, uccide o si toglie la vita per amore.
L’autore Massimo Carlotto ha scontato anni di carcere per un omicidio che non ha commesso. La drammaturgia attinge dal suo vissuto e descrive alcuni angoli bui della società contemporanea. Affronta il tema della persecuzione attuata dalla stampa, disposta ad alterare la realtà dei fatti pur di servire un prodotto ben confezionato e accattivante ai lettori ingordi. Una caccia alle streghe sempre alla ricerca di un colpevole, anche a costo di trascurare la verità e rovinare l’esistenza degli interessati.
Ogni martedì alle 15:00 una donna sfuggente (Giuliana De Sio) varca la soglia della Pensione Lisbona per concedersi un’ora di piaceri carnali. Quest’abitudine è diventata negli anni un rituale necessario, Nanà reitera le medesime azioni con sistematica meticolosità. Si mostra risoluta e autorevole, ma nel secondo atto la sua marmorea corazza di ghiaccio andrà in frantumi. Ella compra sessanta minuti di sesso alla settimana per fuggire la realtà della propria vita, l’algida insensibilità è una maschera dietro cui si nasconde. Al contrario Bonamente, attore porno in declino, agogna disperatamente fama e celebrità. Non riuscendo mai a concretizzare tali aspirazioni, ripiega sul mestiere di gigolò. Egli vive ormai da quindici anni nella pensione Lisbona, è l’unico inquilino. L’alberghetto decadente è gestito dalla signora Alfredo, un travestito che si occupa del prezioso cliente come fosse il proprio bambino. La proprietaria si rifugia nell’edificio per poter indossare liberamente abiti da donna. In strada porta indumenti maschili al fine di non sconvolgere i passanti, non rinuncia però alle scarpe col tacco, così da rammentare agli sguardi giudicanti la loro colpa nel costringerla a vestirsi diversamente da come vorrebbe. L’ingresso di un ambiguo vecchio avvezzo all’alcol (Alessandro Haber) rompe la monotona quotidianità dell’albergo riesumando antichi scheletri a lungo tenuti sottochiave. Egli si presenta come un nuovo affittuario senza malizia, ma presto svela di essere un machiavellico giornalista di cronaca la cui psicosi viene somatizzata nella perdita dell’uso delle gambe.
Lo spettacolo è un adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Massimo Carlotto. Il drammaturgo nel trasporre il testo ha lavorato a contatto diretto con gli attori e tale collaborazione ha generato delle modifiche nei personaggi. Ad esempio la costrizione sulla sedia a rotelle della figura del giornalista è una scelta che nasce dall’attuale limitazione fisica dell’interprete Haber.
Nonostante l’utilizzo dei microfoni ad archetto, il testo pronunciato come un torbido fiume di parole è spesso di difficile comprensione. La prima parte si sviluppa come una breve commedia; a seguire invece gli avvenimenti tendono verso un clima cupo e sofferto. Inaspettatamente all’apice drammatico il registro vira verso una marcata comicità che potrebbe risultare stonata agli occhi dello spettatore. Per quanto riguarda i movimenti scenici e i cambi di stato degli attori, talvolta questi appaiono macchinosi e poco fluidi.
A proposito dell’arco narrativo dei soggetti invece, lo sviluppo è facilmente intuibile fin dal loro primo ingresso. In alcune interviste De Sio parla di Nanà come un carattere dal profilo totalmente tragico; Haber spiega che nel romanzo il giornalista è dipinto con le caratteristiche di un sadico crudele, agisce solo per nuocere al prossimo. Egli in quanto artista cerca di dargli una luce diversa nell’opera teatrale, indagando la sua fragilità e disperazione date da un affetto mai ricambiato. La figura del travestito è un ruolo che rischia facilmente di essere appiattito in una macchietta, ma Paolo Sassanelli ci sorprendecon piacevole freschezza e spontaneità.
Inframezzato anche da assoli in cui ogni personaggio canta un classico della musica italiana, lo spettacolo risulta in fin dei conti un pastiche di registri poco armonico. Ne sono un ulteriore segnale i finali di entrambi gli atti che si discostano dal realismo di cui è permeato il resto del lavoro. Nanà nella sua vulnerabilità si libera dagli affanni della vita e danzando crea un’onirica immagine poetica: “Il tango è molto meglio della vita perché se sbagli un passo puoi comunque andare avanti a ballare senza dover rimediare”.
Ariel Ciravegna Thedy
Autore Massimo Carlotto Con Giuliana De Sio, Alessandro Haber, Paolo Sassanelli, Riccardo Festa, Samuele Fragiacomo Regia Pierpaolo Sepe Scene Francesco Ghisu Costumi Katarina Vukcevic Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo, Goldenart Production, Teatro della Toscana
L’idea per lo spettacolo Come tutte le ragazze libere, andato in scena al Teatro Gobetti dal 21 al 26 febbraio all’interno della stagione teatrale 2022/2023 Out of the blue, nasce da un singolare fatto di cronaca: sette tredicenni, originarie della Bosnia Erzegovina, al ritorno da una gita scolastica scoprono di essere rimaste incinte. La notizia ha un impatto globale, attorno ad esso si crea un dibattito accesso per capire di chi siano le responsabilità di un’educazione sessuale non adeguata, se non addirittura mancante. La scuola e le famiglie scaricano queste responsabilità l’una sulle altre.
Da tutto questo la drammaturga Bosniaca Tanja Sljivar prende l’ispirazione per scrivere, nel 2017, questa pièce teatrale, nella sua versione italiana tradotta da Manuela Orazi e diretta da Paola Rota.
“Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
(da Anna Karenina di Lev Tolstoj)
Nella scorsa stagione del Teatro Stabile di Torino abbiamo assistito a diversi spettacoli che hanno avuto al centro rapporti familiari, ovviamente quasi sempre conflittuali. Del resto si dice che non sia possibile raccontare una buona storia senza un buon “conflitto” e quale contenitore migliore se non quello della famiglia, per generarne di enormi e sorprendenti. Lo avevano capito molto bene i greci che da “divini” conflitti familiari hanno fatto scaturire l’intera esegesi dell’umanità.
Tra i rapporti familiari più complicati, e probabilmente per questo di maggiore interesse, rimane il più ancestrale tra tutti, quello tra genitori e figli. Ed è proprio questa la relazione al centro dei due spettacoli che vorrei provare a mettere a confronto: Da lontano – chiusa sul ripianto monologo/dialogo scritto e diretto da Lucia Calamaro e interpretato dalla brava Isabella Ragonese; e il ben noto testo di Euripide Ifigenia, uno spettacolo corale diretto e interpretato, tra gli altri, da Valerio Binasco nel ruolo di Agamennone.
Partiamo subito dal riconoscere che entrambi questi spettacoli sono animati da rapporti familiari conflittuali, che sono in realtà il pretesto attraverso il quale si svela una tematica più profonda che è il vero minimo comun denominatore delle due pièce: “la condizione femminile devastata da una società oppressiva e giudicante”, come si legge nella stessa nota dello spettacolo Da lontano. Di particolare interessante è il modo che hanno trovato i due registi di mettere in scena questo tema perché risulta perfettamente identico nella sua specularità. Del resto stiamo parlando di due punti di vista completamente e inevitabilmente diversi, quello maschile di Binasco e quello femminile di Calamaro. In un viaggio che procede dall’interno all’esterno, dal privato al pubblico per quel che riguarda il punto di vista maschile; dall’esterno all’interno, dal pubblico al privato, per quel che riguarda il punto di vista femminile. Dove ragioni pubbliche hanno la meglio sull’animo maschile e ragioni private su quello femminile.
Da lontano – chiusa sul ripianto, nonostante racconti una storia contemporanea, un dramma intimo che riguarda la relazione tra una madre e una figlia, in realtà come abbiamo detto, pone l’accento sulla condizione femminile come qualcosa, come dice lo stesso titolo, che arriva “da lontano”. Un retaggio che troviamo già nei miti greci, in pensatori come Aristotele o in drammaturghi come lo stesso Euripide, ed è proprio in questo che i due spettacoli rivelano un’identica sostanza. Ma Calamaro parte da un “oggi”, che è ben rappresentato da quel male simbolo della società contemporanea: la depressione, per arrivare a un passato atavico, quel “lontano”, padre di un condizionamento sociale, culturale che è arrivato immutato fino a noi. Un passato che ha avuto come conseguenza estrema l’accettazione, per non dire la pretesa, della sempre totale disponibilità del sacrificio della donna per gli uomini. Nella stessa nota già citata si legge di un “monologo […] sul mondo femminile devastato da una società […] che impone alla donna ruoli limitanti, nei quali ci si sente in trappola fino a non riconoscersi più…”, sottintendendo un andare in pezzi, uno “smembrarsi” o un essere smembrati come atto dovuto (inevitabile non pensare a Ifigenia).
Dal canto suo Binasco proprio nell’Ifigenia procede in maniera inversa, ovvero parte da una storia “lontana”, con il fardello di aspettative formali che una scelta del genere comporta, come scrive lui stesso nella nota di regia, ma “prendendosi la responsabilità” di raccontare, da uomo contemporaneo, con una sensibilità contemporanea, una storia che vuole essere contemporanea. Sempre nella nota di regia si legge infatti:
“Grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica, e voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica…”
Quindi da un lato abbiamo Binasco che mette in atto un processo attraverso il quale tende a smitizzare la “favola tragica”, proponendo, attraverso quella “concretezza psicologica”, non archetipi, modelli, con cui siamo abituati a confrontarci quando ci accostiamo al mito ma complessi esseri umani con tutte e in tutte le loro sfaccettature. Dall’altro in Da lontano avviene il processo inverso grazie al quale, più che ricorrere a una “concretezza psicologica” si ricorre a una “concreta analisi psicologica” che tenta di sciogliere quella complessità dell’essere umano per trarne modelli, archetipi, più facilmente riconoscibili, che possono essere più facilmente compresi, ascoltati e per questo perdonati. Viaggi diametralmente opposti che da un lato portano verso la malattia, la schiavitù, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie uniche e specifiche passioni, senza la pretesa di essere un modello, un viaggio anti-catartico da un lato (in questo consiste la demistificazione di Binasco) e dall’altro un viaggio che porta, all’opposto, ad una salvezza, una guarigione che scaturisce proprio dall’analisi di una mente lucida e razionale che guarisce nel momento in cui riesce a liberarsi da quel groviglio di passioni che gravano come ipoteca del passato sul cuore di una donna (intesa come archetipo).
Dal punto di vista della messa in scena anche qui scelte simili, all’insegna della semplicità e del togliere. In entrambi i casi, scene e costumi dalle linee pulite, pochi gli oggetti di scena, pochi i colori e tutti molto tenui e neutri con alcune eccezioni studiate ad hoc, anche se in Binasco assistiamo a un rigore maggiore nella scelta di far persino a meno del palco che se da un lato risulta coerente con quest’ottica della sottrazione, dall’altro è decisamente in linea con secoli di tradizione tragica. L’azione infatti è collocata al centro di un grande spazio rettangolare, il pubblico è distribuito su spalti laterali che costeggiano i lati più lunghi di quello che è a tutti gli effetti un teatro di posa ridotto all’essenza, “spoglio di richiami visivi fini a sé stessi” come dichiarato nella stessa nota di regia. Questo spazio vuoto viene attraversato dai molti personaggi che lo riempiono con i loro stati d’animo che contengono già dall’inizio quel pathos, quel “dolore estremo” in un viaggio che come abbiamo visto procede da uno spazio interno-privato, l’intimo dell’animo di Agamennone, a uno spazio esterno-pubblico che trova la sua massima platealità in quell’urlo silente di madre.
Anche in Da lontano abbiamo la voce silente di una madre, una madre che non vediamo mai ma che incombe più di un personaggio in carne e ossa e che vive in quell’unica figura presente in scena, quella della figlia, che sembra in grado, proprio perché modello/archetipo, di riflettersi e moltiplicarsi. Perché in questo processo di analisi, quell’unico personaggio in scena, per potere essere compreso, e nello stesso tempo per comprendersi, deve essere scomposto. Su questa figlia grava una sorte analoga a quella di Agamennone: vivere “quel dolore estremo” all’infinito, perpetuato dal senso di colpa di non essere riuscita, per motivi del tutto diversi da quelli di Agamennone, a salvare la persona amata. Ma mentre la figlia di Da lontano, in quanto bambina, non aveva né il potere né i mezzi per salvare la madre e una volta che comprende questo si perdona e guarisce, Agamennone al contrario ha sia il potere che i mezzi per salvare Ifigenia ma sceglie di non farlo condannando sé e la sua famiglia alla dannazione eterna.
In entrambe le storie viene sovvertito l’ordine naturale delle cose in cui, almeno fino a un certo punto della vita, dovrebbero essere i genitori ad aiutare e a prendersi cura dei figli fino a che non si arriva ad un momento in cui questi ruoli tendono ad invertirsi.
Inoltre, per tonare al tema più profondo, se è vero che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo è altrettanto vero che nonostante il passare dei secoli e i molti diritti conquistati, la donna, ancora oggi, rimane pesantemente e inesorabilmente sacrificabile.
Nina Margeri
Il blog degli studenti di teatro del D@ms di torino