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LE BARUFFE CHIOZZOTTE, UNA COMICA MALINCONIA CON INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Le Baruffe Chiozzotte, regia di Jurij Ferrini, è in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 21 Novembre al 17 Dicembre 2017.

Il famoso testo di Carlo Goldoni, uno dei più divertenti scritti dall’autore, ritrae l’atmosfera della vita popolana del Veneto del ‘700: uomini un po’ rozzi, istintivi, bloccati nel rispetto dell’onore e delle tradizioni, prima fra tutte il matrimonio, che è il motore centrale che governa tutte le azioni dei personaggi. Ci sono cinque donne che cuciono merletti in attesa del ritorno degli uomini, in attesa di essere chieste in spose: due di loro sono già maritate e fanno quasi da madri alle altre tre ragazze che non vedono l’ora di andare in spose all’uomo che più le affascina. E da un piccolo corteggiamento mal riuscito scaturisce la grande baruffa che porterà tutti i personaggi di fronte alla legge: Isidoro, interpretato dal regista, è il cogitore veneziano che non solo riuscirà a portare la pace tra le due famiglie in litigio, ma combinerà anche i tre matrimoni.

La traduzione in italiano dell’opera, scritta in dialetto veneto,  restituisce alla perfezione il ritmo originario e rende comprensibile a tutti la storia. L’unico a parlare in dialetto (che in realtà si trasforma in una lingua inventata splendidamente comica e incredibilmente chiara a tutti) è il personaggio di Fortunato (Angelo Tronca). Tutti gli  attori hanno ottimi tempi comici e usano il corpo in  armonia con lo spazio. I personaggi sono dipinti con affetto, sono tutti simpatici e in fondo al loro cuore buoni, con valori puri nella loro semplicità; ognuno di loro è ben tratteggiato, e soprattutto i personaggi femminili hanno una personalità definita e forte. Infatti, sono  loro a causare e alimentare i litigi, mentre gli uomini sembrano quasi marionette mosse dalle  gelosie e dalle chiacchiere femminili.

Questa commedia però non è solamente risate e ironia, racchiude un nucleo problematico e malinconico, come rivela lo stesso regista. Parla, infatti, di uomini che stanno dieci mesi in mare, facendo una vita molto dura  e tenendo in pensiero i loro cari rimasti a casa. Le  fanciulle sono ossessionate dal matrimonio, visto più che come un momento gioioso, come un modo per andarsene di casa. Per sposarsi basta darsi la  mano, gesto che può diventare meccanico, come meccaniche e ripetitive appaiono le vite di questi giovani. Inoltre, mancano figure genitoriali di riferimento, sebbene siano poi gli uomini più maturi a cercare di far ragionare tutti e a voler riportare la serenità.

Interessante la scelta di Ferrini di trasporre la vicenda in un contesto meta teatrale: stiamo infatti assistendo a una prova aperta, non esiste la quarta parete né l’illusione del teatro, solo un abbozzo di  scenografia. I costumi sono normali abiti di tutti i giorni, anche se ogni attore ha uno stile che lo differenzia dall’altro e che richiama il carattere del proprio personaggio. A ricordare l’epoca storica di questa commedia stanno dei manichini sullo sfondo vestiti con abiti settecenteschi. Così il passato e il presente si fondono nelle Baruffe senza tempo.

di Carlo Goldoni
traduzione Natalino Balasso
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecc a Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione
regia Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gian Andrea Francescutti
regista assistente Marco Lorenzi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

di Alice Del Mutolo

INTERVISTA AD ANGELO TRONCA

Oggi è qui con noi Angelo Tronca, un attore che ha collaborato con il teatro Stabile di Torino interpretando il personaggio di Fortunato nello spettacolo. Insieme a lui, cercheremo di capire meglio il suo ruolo, la sua formazione e le sue passioni.

L’arte del teatro rappresenta spesso una missione. Talvolta questa strada si intraprende per talento. A volte, invece, per gioco. Tu come mai hai deciso di intraprendere la carriera attoriale?
E’ una domanda a cui non so dare una risposta ben precisa. Sono stati un insieme di fattori a indirizzarmi su questa strada. Il primo fra tutti è stato frequentare un corso di teatro al liceo. Lì, ho incontrato anche delle compagne di scuola molto carine. Dopo poco tempo avevo iniziato a divertirmi, riuscivo ad esprimere quello che avevo dentro, provando, di conseguenza, nuove emozioni. Così, terminato il liceo, ho fatto il provino per entrare al teatro Stabile di Torino e mi hanno preso. 
 
Spesso la comprensione del proprio dono di attore passa attraverso la conoscenza di un ruolo, di un carattere, di un personaggio. Quale personaggio teatrale ti è piaciuto interpretare di più? Quale ti ha segnato?
 
In realtà sono due i personaggi che mi hanno colpito maggiormente. Il primo è Aspettando Godot sempre sotto la regia di Jurij Ferrini, in cui ho interpretato Pozzo: un soggetto fuori di testa, tratto dalla piéce di Samuel Beckett, in questo testo e attraverso questo ruolo, mi sono dovuto liberare di ogni tipo di freno. Il secondo invece è il personaggio di Don Sallustio portato recentemente con Marco Lorenzi tratto da Ruy Blas, un dramma di Victor Hugo. Questo testo ha un contenuto molto avvenente, strutturato su passioni sfrenate e su una scrittura ottocentesca. In questo caso, ho dovuto interpretare un uomo spietato ed estremamente malvagio. 
 
Le Baruffe Chiozzotte, testo seminale nella carriera drammaturgica di Goldoni, è scritto per essere recitato in dialetto. Come mai sei stato l’unico nelle Baruffe Chiozzotte a parlare nella lingua che dà il titolo al lavoro? 
 
Allora, Goldoni ha scritto questa piéce teatrale dove tutti i personaggi parlavano Chiozzotto, un particolare dialetto di Chioggia. Solo il personaggio di Isidoro parlava Veneziano mentre tutti gli altri “pescatori” comunicavano un dialetto più duro. Tra questi pescatori ce n’era uno che parlava in dialetto talmente stretto che lo capivano solo poche persone come ad esempio sua moglie e questo era un motore comico che utilizzò Goldoni. Oggi sarebbe stato difficile per il nostro pubblico riuscire a portare in scena queste differenze dialettali. Così Jurij Ferrini ha modificato il testo facendo parlare tutti in italiano tranne il mio personaggio, Fortunato, per lasciare quella chiave comica come nell’ epoca di Goldoni. –
 
Le particolarità dialettali presso rendono difficile la caratterizzazione di un personaggio, soprattutto se comico. E’ stato complicato interpretare il ruolo di Fortunato? 
 
Sì, perché lo scoglio linguistico era molto forte, quindi la prima necessità era rendere armonico e fluido l’eloquio. Il personaggio doveva, infatti, risultare naturale, senza forzature
 
Il lavoro di squadra, di gruppo e l’interazione con ogni genere di operatore del settore sono caratteristiche indispensabili per un buon attore. Che rapporto hai con la compagnia dello Stabile? 
 
Direi buono, nel senso che è il secondo teatro più importante d’Italia, mentre come teatro Nazionale è il primo. La compagnia è giovane e stimolante ed è sempre interessante lavorare in questo contesto. Purtroppo a causa dei tagli alla cultura, per questioni economiche, accorciano sempre di più i tempi di prova. Noi ci siamo trovati con sole tre settimane disponibili a ridosso del debutto. In questo modo sai già che non puoi metterti nella condizione di rischio, devi sapere già cosa devi fare. 
 
Il futuro dell’attore di teatro è spesso considerato incerto.Come ti vedi tra 10 anni? 
 
Mi vedo bene, forse migliore: sarò un uomo maturo di 43 anni. Spero di fare ancora teatro costruendo una realtà mia dove poter costruire e stabilizzare una mia poetica. Ho voglia di sperimentare un percorso autoriale. Infatti è il secondo anno che scrivo piece originali da dirigere e interpretare. Mi piace questa linea anche perché in Italia ci sono poche persone che intraprendono questa strada soprattutto scrivendo delle piece che coinvolgono altri attori. Il lavoro artistico è anche un impegno nei confronti dell’altro, del sistema e del mondo contemporaneo.

 

 

intervista a cura di Alessandra Nunziante

 

ELEPHANT WOMAN: LA PISTOLA DELLA FOLLIA

Un altro spettacolo del ricco programma del Festival delle Colline Torinesi 2017:  Elephant Woman, di Andrea Gattinoni con Silvia Lorenzo, in scena al Teatro Gobetti.

La scena è completamente vuota: quinte e fondale neri e una luce fissa. Nel buio sentiamo  un rumore di tacchi a spillo, poi  entra una donna con un rossetto rosso, seminuda, che inizia a parlare di sé, Topazio, e della sua amante, B. Dopo pochi minuti ci da le spalle ma,  girandosi di nuovo,  ci punta addosso una pistola: proprio questo oggetto  sarà il punto di tensione di tutto lo spettacolo, perché il pubblico non riuscirà mai a staccare gli occhi dall’arma e, proprio per la sua presenza, non abbasserà mai l’attenzione nemmeno per un secondo.

Topazio è una giovane donna che decide di abbandonare famiglia, lavoro e amicizie per vivere ai margini della legalità e per dare sfogo a ogni  pulsione. Il racconto procede con l’attrice sempre al centro della scena. Si muove lentamente e,  nonostante sia sola, non fa mai sembrare vuoto il palcoscenico. Ci cattura  con la mimica e con il corpo, con la voce suadente e con i racconti della sua vita: una vita di dolore, di abusi, di solitudine e di insicurezza.

Per tutto lo spettacolo abbiamo l’impressione di trovarci all’interno della mente un po’ malata di Topazio: i suoi racconti provengono dal buio, da un incubo, e non saremo mai sicuri della veridicità delle sue parole. Ma non è questo l’importante, non è necessario sapere se siano tutte bugie o se sia un sogno. Il testo, infatti, vuole farci riflettere sul doloroso destino di alcune donne maltrattate e poi abbandonate a loro stesse. Questo non può far altro che creare esseri umani che non distinguono più la realtà dalla finzione e finiscono per relegarsi ai margini della società.

Il perno emozionale dello spettacolo è la lettura di una lettera alla madre, che non ha mai aiutato la figlia abusata dal padre: la disperazione, il dolore e la follia che ne deriva si scatenano  come una tempesta,  amplificata dall’uso di un microfono panoramico.

L’attrice Silvia Lorenzo è stata in grado di tenere alta l’attenzione degli spettatori  per un’ora di monologo. Alla drammaticità dei racconti si sovrappongono momenti comici in cui l’attrice ripete a memoria definizioni tecniche della lingua italiana o astronomiche come se fosse una voce automatica, esterna al personaggio.

Un colpo di pistola sottolinea il termine dello spettacolo, facendo domandare a tutti gli spettatori se Topazio si sia uccisa, se abbia ucciso qualcuno, o se sia mai esistita.

Alice Del Mutolo

di Andrea Gattinoni
regia 
Andrea Gattinoni

con Silvia Lorenzo

produzione Teatro Filodrammatici, Festival delle Colline Torinesi

 

Teatro Stabile di Torino stagione teatrale 2017-18, conferenza stampa

Giovedì 11 maggio presso il Teatro Carignano si è tenuta la conferenza stampa del Teatro Stabile di Torino riguardante il programma della stagione teatrale 2017-18 .  Sono intervenuti il presidente Lamberto Vallarino Gancia, il direttore Filippo Fonsatti, il direttore artistico Mario Martone, il nuovo direttore artistico che entrerà in carica dall’inizio del 2018, Valerio Binasco, le assessore alla cultura Francesca Paola Leon e Antonella ParigiBarbara Graffino, membro del consiglio generale della Compagnia di San Paolo.

Il presidente  Lamberto Vallarino Gancia  ha espresso, a nome suo e del Consiglio di Amministrazione, i più sinceri auguri al nuovo direttore artistico Valerio Binasco, ai collaboratori dello Stabile e a Mario Martone, per l’ottimo lavoro che ha svolto negli ultimi dieci anni. Ha introdotto poi il direttore Filippo Fonsatti, ricordando quanto sforzo comporti creare un cartellone teatrale come quello dello Stabile e ha mostrato gli indicatori chiave della stagione scorsa. Lo Stabile di Torino si conferma al secondo posto tra i Teatri Nazionali nella classifica ministeriale grazie ad un’alta qualità dei progetti artistici, al contributo economico garantito dai Soci Aderenti e soprattutto grazie al lavoro svolto dallo staff.

La cultura è fondamentale per la crescita di un territorio. La nuova stagione comprenderà 16 produzioni, di cui 5 nuove produzioni esecutive, 6 nuove coproduzioni e 5 riprese, tra cui 29 spettacoli ospiti e 24 spettacoli programmati per la rassegna Torinodanza. Sono 69 gli spettacoli con grandi titoli di registi e attori che si sono affermati sulla scena scena nazionale e internazionale. Tra le produzioni troviamo molte rivisitazioni di testi classici: Don Giovanni di Molière con la regia di Valerio Binasco, Le baruffe chiazzotte di Carlo Goldoni con la regia di Jurij Ferrini, L’illusion Comique di Pierre Corneile con la regia di Fabrizio Falco e Le Baccanti di Euripide con la regia di Andrea De Rosa. Ma troviamo anche una vasta gamma di produzioni contemporanee come Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo con la regia di Mario Martone, Il nome della rosa di Umberto Eco con la regia di Leo Muscato, L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di Valter Malosti, Galois di Paolo Giordano con la regia di Fabrizio Falco, Emone. La traggedia de Antigone seconno lo cunto de lo innamorato di Antonio Piccolo con la regia di Raffaele Di Florio e Da questa parte del mare di Gianmaria Testa con la regia di Giorgio Gallione. Prosegue la collaborazione con le compagnie teatrali della città di Torino: importante la coproduzione di Lear, schiavo d’amore dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa che debutterà in prima nazionale al Teatro Gobetti con la regia di Marco Isidori, inoltre anche Mistero Buffo di Dario Fo prodotto dal Teatro della Caduta con la regia di Eugenio Allegri, Alice nel paese delle meraviglie prodotto dal Mulino di Amleto con la regia di Marco Lorenzi e La bella addormentata con la regia di Elena Serra.
Il teatro pubblico non è la casa di un singolo artista, è un cantiere aperto dove i registi al lavoro devono essere numerosi e diversi tra loro, con un orizzonte comune ovvero la direzione artistica per evitare che gli spettacoli siano un assemblaggio di merci su uno scaffale. Per questo nella stagione prossima si punterà ad una riflessione su temi del nostro mondo complesso, dal micro al macro, della dimensione sociale mononucleare a quella di massa destinato a raggiungere la dimensione G-zero. Ad esempio con il pluripremiato Disgraced di Ayad Akhtar, in cui fuoriesce la tensione culturale all’interno del salotto borghese, con la regia di Martin Kušej.

Tra i dati riportati da Filippo Fonsatti è importante sottolineare che tra il 2015 e il 2016 c’è stato un aumento del 85% delle vendite dei biglietti e che purtroppo quest’anno ci sarà un aumento dei prezzi, eccetto che per gli studenti. Si è parlato molto anche di giovani, infatti Lo Stabile collabora con la Scuola di formazione per Attori e ben 128 artisti e tecnici sono under 40 e altri 45 sono under 30. Perché il teatro comprende tutti coloro che lavorano al suo interno, non solo gli attori ma anche i tecnici che lavorano dietro le quinte.
Inoltre c’è il desiderio di variegare le fasce di spettatori, comprendendo molti giovani e offrendo la possibilità a  un pubblico di  estrazione sociale e di grado di istruzione diversi fra loro di dialogare, perciò assieme alla Fondazione CRT, il Teatro Stabile offre gratuitamente 1.000 abbonamenti per cittadini a basso reddito.

A seguire è intervenuto Mario Martone, presentandosi per l’ultima volta pubblicamente come direttore artistico e lasciando in eredità il suo ruolo al successore Valerio Binasco, regista e attore tra i più apprezzati e premiati della scena italiana. Martone ha sostenuto che il teatro è una macchina che ha bisogno di una buona conduzione gestionale, dove è importante l’elemento razionale ma anche una certa imprevidibilità e follia degli artisti. La parola è poi passata a Valerio Binasco che si è presentato entusiasta di continuare a lavorare con solidità e coerenza sulle tracce del collega Martone, con attenzione ai temi della contemporaneità riletti in modo innovativo ed originale, prestando attenzione alla valorizzazione dei giovani talenti. Durante il suo intervento ha sottolineato quanto sia importante che il teatro rifletta e si interroghi sulla realtà che ci circonda.

“Il teatro non è un semplice luogo dove si svolgono le rappresentazioni teatrali ma è un luogo di vita quotidiana.” ha aggiunto Barbara Graffino,  che è intervenuta assieme agli assessori.

Resoconto scritto da Floriana Pace e Andreea Hutanu.

TEATRO STABILE DI TORINO – TEATRO NAZIONALE
@Presidente: Lamberto Vallerino Gancia
@Direttore: Filippo Fonsatti
@Direttore artistico: Mario Martone
@Consiglio d’Amministrazione: 
Lamberto Vallerino Gancia
Riccardo Ghidella (Vicepresidente)
Mario Fatibene
Cristina Giovando
Caterina Ginzburg
@Collegio dei Revisori dei Conti:
Luca Piovane (Presidente)
Flavio Servato
Stefania Branca
@Consiglio degli Aderenti:
Città di Torino
Regione Piemonte
Compagnia di San Paolo
Fondazione CRT
Città di Moncalieri (Sostenitore)

INFORMAZIONI. Biglietteria del Teatro Stabile di Torino: Teatro Gobetti, via Rossini 8 – Torino. Tel. 011 5169555 – Numero verde 800.235.333 – info@teatrostabiletorino.it

Il lavoro di vivere in coppia

 

Il lavoro di vivere è una commedia “crudele e beffarda” di Hanoch Levin, autore israeliano, molto rappresentato in Europa. Andrée Ruth Shammah traduce e adatta il testo dall’ebraico, definito da diversi critici di alta complessità. A completare l’opera, che è stata in programmazione al Teatro Gobetti di Torino dal 17 al 22 gennaio 2017, sono Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto.

Il lavoro di vivere ha bisogno di soli tre attori per portare in scena una scatenata crisi coniugale, che si realizza sul palcoscenico nel quale campeggia al centro un bianco letto matrimoniale. Ma ascoltando con attenzione il lungo monologo di Yona (Carlo Cecchi) si scopre che è in gioco qualcosa di più e di diverso del suo matrimonio con Leviva (Fulvia Carotenuto).

Sono vite insoddisfatte. Due amanti incapaci di amare. Si sentono scaduti, abituati ormai alla decadenza del corpo e dei sentimenti.

Yona è un cinquantenne in crisi di mezz’età. Una notte si alza dal letto e s’interroga su chi dorma al suo fianco. Leviva è una donna concreta e leale, innamorata, forse, fin da minacciare il suicidio pur di non essere lasciata dal marito. Al culmine del litigio spunta un visitatore, un amico: Gunkel. L’uomo, in cerca solo di un’aspirina nel bel mezzo della notte, non lascia l’abitazione prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad aver inchiodato i due coniugi per trent’anni l’uno all’altra. Se ne va lasciando una forte amarezza in quella stanza da letto che assomiglia sempre di più ad un ring.

Le commedie di Levin descrivono battaglie quotidiane della piccola gente, collocando l’azione in uno spazio ristretto. Questo testo in particolare riesce ad esprimere in modo non banale la durezza di una vera e propria lotta verbale, crudele ed ironica allo stesso tempo.

Il teatro di questo autore chiude le porte agli eroi e accoglie i cosiddetti “perdenti”, vestendoli di una vena poetica che li avvolge e li rende memorabili.

Il lavoro di vivere: “più facile a dirsi che a farsi!”

Sono le due di notte, le tende delle finestre oscurano la stanza matrimoniale dei due coniugi Yona e Leviva Popoch. Al centro di quest’ultima: un letto, sottosopra e disfatto, quasi “sciupato”, metafora senile dell’individuo.

Dormono, quando improvvisamente l’uomo viene colto da un malore al cuore: è una meditazione sul “male di vivere” -molto simile ai due protagonisti calviniani de La vita difficile –  è il bruciore del rimpianto di cose mai fatte, è il desiderio impossibile di tornare indietro negli anni per intraprendere un nuovo ciclo di vita; ma è anche la bramosia di rinascita; infatti, Yona è come una fenice alla quale hanno tagliato le ali, ed ora sembra deciso a riprendersele. Arrabbiato e insoddisfatto, quest’ultimo, decide di destare la consorte dal suo sonno profondo e quieto, ribaltandola letteralmente giù dal materasso, buttandola per terra senza alcuna remora, come si farebbe con un sacco dell’immondizia, per poi, cinicamente, chiederle: “Perché sto con te, Leviva?”

Ed è proprio in questa stanza- che pare un quadro dai colori ormai sbiaditi a causa del tempo- che ha inizio una lunga e logorante guerra di trincea che vede l’alternarsi di ragionamenti filosofici, di insulti ironici e di divertenti sfottò; la rabbia viene “vomitata” l’una addosso all’altro, per sfociare, infine, in violenti e sarcastici atti carnali che ricordano tanto quelli di Philip Roth.

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“Guardatevi sembrate due cani rabbiosi” dice l’impertinente amico Gunkel, osservando la coppia. Gunkel è giunto nella stanza forse perché in cerca di un’aspirina contro il mal di testa, o forse a causa della sua sofferenza scaturita dalla solitudine, in cerca di un po’ di compagnia contro cui inveire. Così, questi due esseri umani mutati in bestie, sprecano parole su parole senza mai agire veramente. Sono inetti di fronte ai loro stessi desideri!

Yona ha preparato la valigia, si è vestito, ha indosso persino una cravatta sopra il suo pigiama preferito, è desideroso di ricostruirsi una vita e perché no, di trovare un nuovo “culo sodo” che sostituisca quella flaccido della moglie. È già in viaggio… sì, ma con la mente, di certo non fisicamente: i suoi piedi rimarranno, infatti, radicati in quella stanza “finché morte non li separi”! La moglie inizialmente inscena, in modo astuto, e pur di non perdere il suo compagno di vita, un gioco di adulazione verso il marito: si offre completamente a lui, inginocchiandosi al suo cospetto, quasi fosse una madonna vergine, per poi trasformarsi in un giannizzero disperato, che recluta il marito, affinché combatta al suo fianco quella cruda ed estenuante guerra di vecchiaia e di morte, che altro non è che il lavoro di vivere.

L’uomo sembra finalmente aver messo da parte la rabbia accecante, per rendersi conto che, in fondo, andare via di casa all’età di cinquant’anni non è poi una grande idea, che in fin dei conti non gli conviene poi tanto rinunciare alle comodità quotidiane, e dunque, a un bel frigorifero pieno, al piatto caldo, e a tutte quelle abitudini che solo trascorrendo una vita insieme, l’altra persona può arrivare a conoscere: dalla quantità di sale per condire le varie pietanze, alla quantità di zucchero da sciogliere nel caffè!

Andrée Ruth Shammah ci regala una regia d’effetto, quasi cinematografica e curata nell’estremo dettaglio. Carlo Cecchi che interpreta il burbero marito, è formidabile nella sua recitazione “stanca”, trascinata e a tratti persino “biasciacata”; estremamente vera la recitazione di Fulvia Carotenuto (Leviva) e Massimo Loreto (Gunkel); merito anche del testo di Hanoch Levin, israeliano scomparso prematuramente -purtroppo poco conosciuto in Italia- che mescolando una freddezza tipica dello straniamento brechtiano ad una violenza già cara al teatro sperimentale del secondo Novecento, ci pone di fronte a dei protagonisti che sono degli anti-eroi per eccellenza, inetti soldati che combattono piccole grandi battaglie quotidiane, ai quali non resta che lamentarsi e crogiolarsi  nei loro fallimenti.

Il lavoro di vivere è una piccola grande analisi sul trionfo delle parole sulle azioni, che spesso caratterizzano la vita di noi fragili esseri umani; è una amara celebrazione dell’abitudine sulla forza vitale, e dunque sulla nostra incapacità di agire, rimanendo stigmatizzati e incatenati ad una situazione che sappiamo peggiorare sempre di più…dunque non ci resta che lamentarci, continuamente lamentarci, perché in fondo ci piace e ci fa comodo così.

Un testo sulla difficoltà e sulla pesantezza di vivere, che vale la pena di essere visto, perché tutti noi, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito o sentiremo, di non essere più in grado di andare avanti.

 

Martina Di Nolfo

 

Di Hanoch Levin

Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah

Con:

Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto

Musiche Michele Tadini

Teatro Franco Parenti/ Marche Teatro

Elettra: una vendetta al sapore di libertà

La tragedia di Elettra viene portata in scena da Giuliano Scarpinato, attore e regista della scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma non è strettamente la tragedia greca, comunemente nota a noi spettatori e lettori dei classici greci, Eschilo, Sofocle o Euripide. È una tragedia che si protrae nel tempo, un mito che passa per diverse rielaborazioni e rimane pregno di esse, fino a raggiungere la penna del drammaturgo viennese Hugo Von Hofmannsthal (1874-1929). Una rilettura in chiave moderna, non dimentica delle precedenti. Messa in scena per la prima volta il 30 ottobre 1903 al Kleines Theater di Berlino, per la regia di Max Reinhardt (1873-1943). Dedicata a Eleonora Duse, che però non recitò mai il ruolo, Von Hofmannsthal struttura la tragedia in un atto unico, in modo tale che la vicenda risulti concentrata in poco tempo, con l’assillante paura, da una parte, e la fretta di una vendetta da compiere al più presto dall’altra. Il drammaturgo incentra tutta la vicenda sulla figura di Elettra, una figura animale, una belva che rantola e si nasconde per casa, non più figura umana ormai, delirante e pazza, ma conscia dell’orrore e del sangue marcio di quella casa; l’unica che non vuole e non può rimanere indifferente davanti al padre ucciso, umiliata, imprigionata nell’ambiente domestico, la cui ostilità l’ha resa cane. Il drammaturgo, partendo dalla psicologia con accenti freudiani dei personaggi, arriva a scandagliare la psicologia e l’animo degli uomini in una chiave moderna. Sarà da qui, da questa analisi della psicologia, da questa caratterizzazione che muove il lavoro di Giuliano Scarpinato. Il regista si concentra sui personaggi e sui loro corpi, dando una maggiore fisicità, innestando tutto ciò dentro le loro pulsioni, odio sì, ma anche eros.

Lo spettacolo inizia con il sipario socchiuso. Si intravede un tavolo, presumibilmente la sala da pranzo, e alcune serve che girano intorno ad esso e poi al di fuori della nostra visuale in cerca di Elettra, chiamandola a gran voce. La paura che Elettra scappi da quella prigione è molto forte. Il sipario si apre del tutto e troviamo questo tavolone rettangolare alle cui estremità, seduti, ci sono Egisto e Clitemnestra che cenano. A bordo tavolo, in posizione centrale, tre serve ascoltano e aspettano le richieste dei padroni. Sul lato destro del palcoscenico Aio è seduto su una sedia con una chitarra in mano. ELETTRA_nuove.1Ma uno sguardo più attento va rivolto alla scenografia e al suo significato. Una tavola rettangolare lunga, come si è detto, con tovaglia bianca e tutt’intorno delle tende bianche, che lasciano intravedere l’ombra della figura che passa dietro. Un bianco dai cui traspare un’atmosfera quasi surreale, di sogno, di pace in contrasto con il sangue e l’odio presenti in quella casa, un luogo che si astrae da tutto il resto, chiuso da queste tende candide. La scelta della sala da pranzo è significativa: essa è un luogo di convivialità, luogo dove possono capitare tutti e quindi non luogo segreto, privato, dove si pianifica la morte di qualcuno. Elettra a un certo punto parlando a sua sorella, Crisotemi, quando quest’ultima rammenta che le porte sono chiuse, le consiglia di non fidarsi vivamente di questa casa e delle porte, perché dietro si può celare qualche imprevisto, qualcuno che origlia, persino i muri non sono sicuri in una casa che ha tradito il suo padrone. Un certo rimando ai drammi di Ibsen, dove le porte assumono una notevole importanza. Qui la sala da pranzo è un luogo quasi a sé stante rispetto alla casa, riparato dalle insidie dell’animo dei personaggi, una specie di rifugio fino a quando Elettra non parla con la madre, e qui svanisce l’aura da luogo incontaminato.

Egisto, qui con il corpo e la voce di Lorenzo Bartoli, è il classico usurpatore, crudele e violento, tiranno di una casa che non è sua, ma che può fare tutto quello che vuole dato che ha il benestare di Clitemnestra. Una figura goffa e spesso sciocca, che non vede oltre quello che ha e la situazione agiata in cui si trova e deve mantenere. Lo si capisce dalle prime battute, quando  pronuncia tre freddure che non fanno ridere, ma essendo lui padrone, figura maschile dominante, ha il potere di far ridere gli altri e tutti ridono, forzatamente, ma ridono, dalle serve a Clitemnestra, per di più potendo sbeffeggiare anche il povero Aio, indotto a cantare per le gozzoviglie e le bevute dei due padroni. Dapprincipio il giusto amante, la riserva ad un marito via da più di dieci anni per la Guerra, a tal punto da essere infatuata, imprigionata dai suoi voleri fino a cambiarlo come figura dominante della casa con il marito, poi ucciso in bagno. Il maschile che vince e infatua il femminile.

Finite le gozzoviglie, le serve ormai prolungamenti viventi dei voleri dei padroni, non indietreggiano o si pongono domande vedendo l’orrore della condizione in cui è ridotta Elettra. Hanno paura del mostro, ma devono controllarlo e tenerlo prigioniero per i voleri dei padroni. Elettra, interpretata formidabilmente ed energicamente da Giulia Rupi, è una belva, uno sciacallo che si nasconde e viene alla luce a fine banchetto, cercando rimasugli di cibo. Quasi una figura pazza che cerca disperatamente in una pozza o nel cielo la figura del padre, lo chiama ma lui non c’è più. Lei non è dimentica di ciò che è accaduto, il ricordo le fa riaffiorare la ragione, una ragione di vendetta nei confronti di una madre che ha ucciso e infangato il proprio marito. Sente profumo di vendetta e deve compierla ora, ma da sola non riesce e ha bisogno di un aiuto. Lo cerca nella sorella, che è però troppo spaventata: ha orrore della madre ma pensa solo a delle possibili nozze per uscire dalla casa prigione. L’aiuto Elettra lo trova invece in un avventuriero, il fratello Oreste, dapprima non riconosciuto, che torna per compiere la vedetta. Lo scontro non si gioca con pugnali e sangue, ma a parole, che colpiscono più di un’arma. Clitemnestra, qui Elena Aimone,  acconsente alla figlia Elettra di parlare. Ha bisogno di parlare, perché con il suo amante non può, buono solo per le voglie carnali; ha bisogno di ascoltare una figlia che seppur ritrosa e belva, è sempre la propria figlia. Ha bisogno di perdono e lo spera anche quando la figlia le dice che per placare tutto ci vuole il sacrificio suo, della madre. Elettra da belva ritrosa la ascolta, ma ciò le fa traboccare l’ardore di vendetta, che da lì a poco si consumerà. Finalmente libera e non più sotto le angherie dei padroni, non più prigioniera della vendetta e del ricordo del sangue del padre, Elettra sentendo voci melodiche può raggiungerle e si libera definitivamente. Una morte forse riduttiva, ma consona ad uno spirito prigioniero che raggiunge la sua pace interiore.

Il regista ci vuole mostrare come questo dramma non sia solo un dramma di vendetta, odio, ma anche un dramma dell’eros. Innanzitutto eros tra Egisto e Clitemnestra, la passione non lecita, ridondante, che sfocia in camera da letto nel programmare l’assassinio di Elettra. E poi tra Oreste ed Elettra: l’idea di una vendetta che si può compiere, il fratello disperatamente creduto morto, il fratello eroe pronto a salvare la sorella, il fratello re, re Oreste, tutte queste idee spingono Elettra all’attrazione per il fratello. Elettra da belva si trasforma in seduttrice e inganna Egisto, che si lascia influenzare dal suo appetito di carne, reso cieco dal sesso, nonostante sia l’amante della madre della ragazza.

Rimane da aggiungere che il tempo che scorre, la vendetta inesorabile sono scandite ad intervalli, da spezzoni cinematografici che ricostruiscono una specie di thriller.

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È un dramma dove il maschile trionfa sempre sul femminile. Da un’età arcaica misogina, dove è l’uomo che comanda, ad un età moderna, dove poco è cambiato. Si può persino pensare che sia un dramma attuale, magari non con vicende uguali, ma pur sempre un mondo di drammi familiari, di spargimenti di sangue, donne segregate. Ma anche nel piccolo dove a volte può apparire la figura del genitore tiranno e della prigionia del figlio, ad un assillante supervisione, per diverse ragioni, che poi porta ad una inevitabile ribellione e ad un sentirsi liberi in qualcos’altro.

Una dramma sempre attuale, una dramma di libertà, psicologica e fisica.

Emanuele Biganzoli

Orlando, quelle primavere che cambiano la vita

Ancora una volta Silvia Battaglio ricopre un ruolo importante all’interno del panorama teatrale torinese: dopo lo spettacolo Ofelia andato in scena al Tangram Teatro, la ritroviamo al Teatro Gobetti all’interno della rassegna “Il Cielo su Torino” il 3 e 4 gennaio con Orlando. Le primavere. Di questo spettacolo cura la regia, le coreografie e la drammaturgia, oltre ovviamente a recitare insieme a Lorenzo Paladini. L’attore interpreta Orlando durante i suoi primi trent’anni, quando è un uomo e deve vivere come un uomo, anche se per sua stessa ammissione non sa bene come fare. Questo Orlando, il primo Orlando, non riesce infatti a trovare una sintesi tra quello che sente di essere veramente e quello che il mondo si aspetta che lui sia, in quanto uomo. Il primo Orlando è confuso, impulsivo, appassionato, si i01_orlando_ph-roberta-saviannnamora a prima vista della bella Sasha, quasi come un bambino viene attratto da un giocattolo nuovo. Gli si spezza il cuore quando lei non si presenterà al loro primo e unico appuntamento, così come quando la poesia che tenta di scrivere non verrà apprezzata, e deciderà allora di andare in guerra. Orlando innamorato, Orlando poeta, Orlando soldato: nessuno stato d’animo e nessun luogo riesce a fargli capire chi è sul serio, nessun vestito gli calza veramente bene. Fino a quando un giorno, improvvisamente, dopo i suoi primi trent’anni di vita, Orlando si risveglia donna. E il vestito che questa volta indossa le piace, la fa sentire finalmente a suo agio, le fa venire voglia di danzare. Come se questo cambiamento ancora non bastasse, Orlando non solo veste meravigliosamente i panni di una donna ma decide di unirsi a un gruppo di zingari, di imparare da loro quello che la vita fino a quel momento vissuta non ha saputo insegnarle. Libera da tutto ciò che l’aveva costretta prima a un’esistenza che non era realmente la sua, questo straordinario personaggio attraverserà, in un arco temporale di ben tre secoli, tutte le sue primavere, fino a quando ritornerà a casa sua consapevole della propria vera natura.

La parola che si potrebbe utilizzare per descrivere questo spettacolo è suggestione. Tutto sembra sospeso, tutto rimane in attesa che qualcosa di nuovo accada. Il pubblico resta immobile e trattiene il respiro mentre cerca di capire cosa si nasconde dietro a un buio debolmente illuminato da una luce soffusa o dietro a un silenzio improvviso, dietro a una danza che comincia e chissà dove porterà. Le luci appese a questi cavi che pendono dal soffitto sono meravigliose: conferiscono a tutto il palco un atmosfera quasi magica e rituale. Illuminano le figure in modo singolare e poetico, e dalla sala si ha la sensazione di guardare verso un cielo stellato. È quasi come se ci fosse un terzo personaggio in scena, e i due protagonisti interagiscono continuamente con lui rendendolo protagonista a sua volta.

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Quello che colpisce sempre degli spettacoli di Silvia Battaglio è la magia che quest’artista fa nascere sul palco giocando con la potenza espressiva che il corpo emana quando assume forme e sfumature diverse da ciò che siamo abituati a vedere. Nulla è quotidiano o didascalico. La sua figura slanciata, modellata da anni di danza, si impone sulla scena fin dal primo istante di apparizione, quando tutto il pubblico allunga il collo per riuscire a vederla: lei si trova al lato della scena rannicchiata per terra, immersa nel buio che ancora avvolge palco e sala, il profilo del corpo debolmente illuminato da una lampada appesa a un filo sopra di lei. L’aria intorno è immobile mentre comincia a respirare. Un respiro soltanto, un microscopico movimento, e tutti gli occhi sono incollati su di lei. Comincia la sua danza leggera che assomiglia a una specie di risveglio, lento rituale, fino a quando non si anima del tutto e comincia a giocare con la sua lampada, a danzare insieme a lei. E in quello spazio piccolo e marginale si focalizza tutta l’attenzione e si concentra tutta l’energia dell’artista. Con il suo corpo quasi spoglio, neutro, con la sola forza dei muscoli e la fluidità di morbidi movimenti, Silvia crea un mondo intorno a sé, mentre le immagini cominciano a venire fuori da questa sua danza che la accompagna sempre, in ogni momento dello spettacolo. Questa potenza, questa energia che caratterizza il suo lavoro le rende possibile servirsi di pochissimi elementi a loro volta molto potenti, sistemati all’interno di una scenografia assolutamente minimale. Stupisce quasi come non abbia bisogno praticamente di nulla per creare un intero spettacolo, per raccontare la sua storia. E la bravura dell’artista non sta solo nel non aver bisogno di molto per fare arte, ma anche nell’astuzia e nella fantasia che impiega per utilizzare questi pochi elementi presenti in scena. Così oggetti semplici e di uso comune vengono caricati di significati e prendono vita, diventano qualsiasi cosa possa essere utile alla narrazione. Delle lampadine diventano specchi, e poi ancora stelle del cielo, o compagni con cui parlare; un fazzoletto profumato diventa un dono per omaggiare la propria amata e poi una poesia; una collana di perle diventa il simbolo di un legame che rimane dentro a un mutamento.

Orlando. Le primavere

liberamente ispirato a Orlando di Virginia Woolf

regia, coreografie e drammaturgia Silvia Battaglio

con Silvia Battaglio e Lorenzo Paladini

suggestioni musicali Luc Ferrari, Paolo Angeli, Officine Schwartz

disegno luci Massimiliano Bressan

Eleonora Monticone

S.O.S. STORIA DI UN’ ODISSEA PSICOSOMATICA: raffigurazione di sette “Chakra”

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Lo scorso 6 gennaio la compagnia Makiro ha presentato in prima nazionale lo spettacolo S.O.S.  Storia di un’Odissea Psicosomatica, all’interno della terza edizione della rassegna “Il Cielo su Torino”. Lo spettacolo è interpretato dalla giovane artista francese Aurélia Dedieu, con la regia di Giuseppe Vetti. Il debutto del lavoro al Teatro Gobetti non poteva avvenire in un giorno migliore di quello dell’Epifania. S.O.S. Storia di un’Odissea Psicosomatica è un viaggio “allucinante” all’interno del corpo umano; viaggio che  viene compiuto dall’attrice con ironia, alla ricerca dei legami tra biologia ed emozioni,  del collegamento tra fisico e psiche.  Dopo aver accusato un forte mal di pancia, la protagonista si rivolge a un originale medico per una visita: la diagnosi è DISINTERESSE. Si tratterà per lei quindi di decidere se prendere la via della conoscenza o continuare a farsi “spacciare” medicine. Scelta la terapia del dottore e intrapreso il viaggio, tra gag, canzoni e pantomima, conosciamo  sette tra i suoi organi, sette piani di un ascensore che come dice  il medico una volta azionato non si può arrestare,  e che ricordano i sette Chakra principali nell’ induismo grazie anche alla scenografia: una grossa piramide in legno con un occhio in alto e una mezza luna in cima.

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 La prima tappa è l’ intestino, rosso e in fiamme, poi l’ utero, campo dove la vita si riproduce se le “condizioni atmosferiche” lo permettono, lo  stomaco, rilettura dei rapporti di forza nel mondo del lavoroil sistema ormonale, ghiandole che condizionano il funzionamento dell’ organismo, il fegato, simbolo del coraggio, della rabbia  incondizionata e della necessità di “distrarsi” in un contesto bellico continuo, rappresentato  con un  crescendo sorprendente di gag e canzoni anni Sessanta che fanno  riferimento al movimento hippy. Il “piano” più “emotional” è il sesto: Il cuore. Deve fare tutto lui, e la protagonista ce lo dice sulle note della famosa e triste Ne me quitte pas. L’ultimo organo è il cervello: in stile mission impossible  bisogna prepararsi ad affrontarlo per raggiungere finalmente la torre di controllo, l’ “illuminazione”.

Alessandra Pisconti

 

scritto da Aurelia Dedieu e Giuseppe Vetti

Con Aurélia Dedieu Regia di Giuseppe Vetti

Musiche: Elia Pellegrino – Giuseppe Vetti

Grafiche: Housedada

Scenografia: Jacopo Valsania

Tecnica: Luca Carbone

Costumi: Federica Chiappero

Foto-video: Davide Carrari

Produzione Compagnia Makiro in collaborazione con Teatro B. Brecht di Formia, Sala Fenix di Barcellona, Teatro C’Art di Castelfiorentino, CuboTeatro di Torino e Teatro della Caduta di Torino

L’ipocrisia cattura anche l’anima più nobile? Misura per misura

Misura per misura è un testo che William Shakespeare scrive nel 1603, ambientato in una Vienna totalmente immaginata dall’autore ma mai realmente visitata. In questa fredda città si svolge una storia che parla di giustizia, di perdono, della deriva malsana a cui conduce il potere se si piega nella direzione sbagliata,  ma ci mostra anche una vena inaspettatamente comica che il regista e attore Juri Ferrini  riesce a esprimere. La scena si apre su un fondale spoglio e pieno di scritte, dove alcuni ragazzi chiacchierano vestiti in modo moderno e un po’ kitsch. “Un omaggio a San Salvario” come dice il regista, quartiere di Torino variopinto e popolato dalle più diverse nazionalità ma allo stesso tempo luogo di problemi sociali e degrado. Le musiche sono pop come i colori degli abiti che contrastano con lo scuro fondale. Quasi subito viene rivelato l’origine dell’intreccio. Claudio, capo di questa banda di ragazzi di strada viene arrestato per aver messo incinta Giulietta e corre a contattare l’amico Lucio perché possa aiutarlo. Questa volta  non potrà fare conto sull’indulgenza del vecchio duca Vincenzo, che si allontana da Vienna per negoziare in Polonia e mette al suo posto Angelo. Quest’ultimo accusa  Claudio del misfatto commesso e per questo lo  condanna a morte.

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Lucio per poter scarcerare l’amico chiede aiuto alla sorella di Claudio, Isabella, la quale è in convento come novizia.. La ragazza accetta di testimoniare in favore del fratello e inscena una sorta di processo contro Angelo dove i due mettono sul banco le loro carte.  Da una parte abbiamo la giustizia rappresentata da Angelo che “punisce solo ciò che vede”, ma che non guarda in faccia  nessuno. Per questo motivo  Claudio non è la vittima ma il capro espiatorio,  e la sua accusa diventa  un esempio per quelli che verranno dopo di lui. Dall’altra parte vi è invece il perdono impersonato da Isabella, la constatazione che “il potere è soggetto ad errori”, e  che il concetto di perdono può essere più forte della pura razionalità.  Angelo, l’avvocato,   sedotto dalla virtù e dalla spiritualità di Isabella, subisce il crollo delle sue certezze,  i suoi sforzi, la sua carriera, gli sembrano ormai lontani ed esplodono in lui le contraddizioni più nascoste e animalesche. Infatti chiederà alla donna di avere un rapporto sessuale con lui in cambio della scarcerazione di Claudio. La ragazza  non accetta e Angelo la minaccia dicendo che nessuno ascolterà lei al suo confronto “Il mio falso pesa più del tuo vero”. A questo punto sorge una domanda: “L’ipocrisia cattura anche l’anima più nobile?”.

Probabilmente si, dopo tutto Angelo prima di incontrare Isabella non faceva altro che seguire la legge scrupolosamente, quindi non si può nemmeno dire che sia un personaggio cattivo. Piuttosto ridicolo, se lo vediamo al giorno d’oggi, ipotesi che sembra trasmetterci anche il regista. Probabilmente Angelo oggigiorno non sarebbe l’illustre avvocato immaginato da Shakespeare a suo tempo, ma piuttosto un impiegato meticoloso, relegato ai margini proprio perchè ligio al dovere. L’attualità che i testi di Shakespeare continuano ad avere dopo secoli viene affrontata bene in scena da Ferrini che infatti mescola il testo originale con elementi comici e battute che ci toccano da vicino.06_foto-misura-per-misura_ph-bepi-caroli_dsc_4258

Ovviamente la piece è anche una commedia, come abbiamo detto e di risate se ne fanno molte. Imperdibile il dialogo tra il Gomito e Mastro Schiuma, molto riuscito ed autoironico anche Angelo Tronca che porta in scena una sua personale e divertentissima versione del personaggio di Lucio. Juri Ferrini invece è il duca Vincenzo che si traveste da frate, “un frate in missione speciale”, per scoprire sotto questo aspetto mascherato il peccato realizzato da Angelo in sua assenza. Lo spettacolo riesce bene, seppur forse troppo lungo, poiché si poteva evitare qualche allungamento dovuto alla trama che il regista ha voluto mantenere nella versione integrale. Per questo motivo il pubblico rischia a volte di perdere l’attenzione e il pathos provocato dalle vicende. Ho apprezzato molto invece la semplicità della scena che non nascondendo le capacità dell’attore, obbliga il pubblico ad essere attento e apprezzare ogni movimento dell’interprete e il modo in cui riempie lo spazio.

Linda Borello

di  William Shakespeare
con Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Gennaro Di Colandrea, Sara Drago, Francesco Gargiulo, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca
regia Jurij Ferrini
scene Carlo De Marino
costumi Alessio Rosati
luci Lamberto Pirrone
suono Gianandrea Francescutti
regista Assistente Marco Lorenzi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale