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Elettra: una vendetta al sapore di libertà

La tragedia di Elettra viene portata in scena da Giuliano Scarpinato, attore e regista della scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma non è strettamente la tragedia greca, comunemente nota a noi spettatori e lettori dei classici greci, Eschilo, Sofocle o Euripide. È una tragedia che si protrae nel tempo, un mito che passa per diverse rielaborazioni e rimane pregno di esse, fino a raggiungere la penna del drammaturgo viennese Hugo Von Hofmannsthal (1874-1929). Una rilettura in chiave moderna, non dimentica delle precedenti. Messa in scena per la prima volta il 30 ottobre 1903 al Kleines Theater di Berlino, per la regia di Max Reinhardt (1873-1943). Dedicata a Eleonora Duse, che però non recitò mai il ruolo, Von Hofmannsthal struttura la tragedia in un atto unico, in modo tale che la vicenda risulti concentrata in poco tempo, con l’assillante paura, da una parte, e la fretta di una vendetta da compiere al più presto dall’altra. Il drammaturgo incentra tutta la vicenda sulla figura di Elettra, una figura animale, una belva che rantola e si nasconde per casa, non più figura umana ormai, delirante e pazza, ma conscia dell’orrore e del sangue marcio di quella casa; l’unica che non vuole e non può rimanere indifferente davanti al padre ucciso, umiliata, imprigionata nell’ambiente domestico, la cui ostilità l’ha resa cane. Il drammaturgo, partendo dalla psicologia con accenti freudiani dei personaggi, arriva a scandagliare la psicologia e l’animo degli uomini in una chiave moderna. Sarà da qui, da questa analisi della psicologia, da questa caratterizzazione che muove il lavoro di Giuliano Scarpinato. Il regista si concentra sui personaggi e sui loro corpi, dando una maggiore fisicità, innestando tutto ciò dentro le loro pulsioni, odio sì, ma anche eros.

Lo spettacolo inizia con il sipario socchiuso. Si intravede un tavolo, presumibilmente la sala da pranzo, e alcune serve che girano intorno ad esso e poi al di fuori della nostra visuale in cerca di Elettra, chiamandola a gran voce. La paura che Elettra scappi da quella prigione è molto forte. Il sipario si apre del tutto e troviamo questo tavolone rettangolare alle cui estremità, seduti, ci sono Egisto e Clitemnestra che cenano. A bordo tavolo, in posizione centrale, tre serve ascoltano e aspettano le richieste dei padroni. Sul lato destro del palcoscenico Aio è seduto su una sedia con una chitarra in mano. ELETTRA_nuove.1Ma uno sguardo più attento va rivolto alla scenografia e al suo significato. Una tavola rettangolare lunga, come si è detto, con tovaglia bianca e tutt’intorno delle tende bianche, che lasciano intravedere l’ombra della figura che passa dietro. Un bianco dai cui traspare un’atmosfera quasi surreale, di sogno, di pace in contrasto con il sangue e l’odio presenti in quella casa, un luogo che si astrae da tutto il resto, chiuso da queste tende candide. La scelta della sala da pranzo è significativa: essa è un luogo di convivialità, luogo dove possono capitare tutti e quindi non luogo segreto, privato, dove si pianifica la morte di qualcuno. Elettra a un certo punto parlando a sua sorella, Crisotemi, quando quest’ultima rammenta che le porte sono chiuse, le consiglia di non fidarsi vivamente di questa casa e delle porte, perché dietro si può celare qualche imprevisto, qualcuno che origlia, persino i muri non sono sicuri in una casa che ha tradito il suo padrone. Un certo rimando ai drammi di Ibsen, dove le porte assumono una notevole importanza. Qui la sala da pranzo è un luogo quasi a sé stante rispetto alla casa, riparato dalle insidie dell’animo dei personaggi, una specie di rifugio fino a quando Elettra non parla con la madre, e qui svanisce l’aura da luogo incontaminato.

Egisto, qui con il corpo e la voce di Lorenzo Bartoli, è il classico usurpatore, crudele e violento, tiranno di una casa che non è sua, ma che può fare tutto quello che vuole dato che ha il benestare di Clitemnestra. Una figura goffa e spesso sciocca, che non vede oltre quello che ha e la situazione agiata in cui si trova e deve mantenere. Lo si capisce dalle prime battute, quando  pronuncia tre freddure che non fanno ridere, ma essendo lui padrone, figura maschile dominante, ha il potere di far ridere gli altri e tutti ridono, forzatamente, ma ridono, dalle serve a Clitemnestra, per di più potendo sbeffeggiare anche il povero Aio, indotto a cantare per le gozzoviglie e le bevute dei due padroni. Dapprincipio il giusto amante, la riserva ad un marito via da più di dieci anni per la Guerra, a tal punto da essere infatuata, imprigionata dai suoi voleri fino a cambiarlo come figura dominante della casa con il marito, poi ucciso in bagno. Il maschile che vince e infatua il femminile.

Finite le gozzoviglie, le serve ormai prolungamenti viventi dei voleri dei padroni, non indietreggiano o si pongono domande vedendo l’orrore della condizione in cui è ridotta Elettra. Hanno paura del mostro, ma devono controllarlo e tenerlo prigioniero per i voleri dei padroni. Elettra, interpretata formidabilmente ed energicamente da Giulia Rupi, è una belva, uno sciacallo che si nasconde e viene alla luce a fine banchetto, cercando rimasugli di cibo. Quasi una figura pazza che cerca disperatamente in una pozza o nel cielo la figura del padre, lo chiama ma lui non c’è più. Lei non è dimentica di ciò che è accaduto, il ricordo le fa riaffiorare la ragione, una ragione di vendetta nei confronti di una madre che ha ucciso e infangato il proprio marito. Sente profumo di vendetta e deve compierla ora, ma da sola non riesce e ha bisogno di un aiuto. Lo cerca nella sorella, che è però troppo spaventata: ha orrore della madre ma pensa solo a delle possibili nozze per uscire dalla casa prigione. L’aiuto Elettra lo trova invece in un avventuriero, il fratello Oreste, dapprima non riconosciuto, che torna per compiere la vedetta. Lo scontro non si gioca con pugnali e sangue, ma a parole, che colpiscono più di un’arma. Clitemnestra, qui Elena Aimone,  acconsente alla figlia Elettra di parlare. Ha bisogno di parlare, perché con il suo amante non può, buono solo per le voglie carnali; ha bisogno di ascoltare una figlia che seppur ritrosa e belva, è sempre la propria figlia. Ha bisogno di perdono e lo spera anche quando la figlia le dice che per placare tutto ci vuole il sacrificio suo, della madre. Elettra da belva ritrosa la ascolta, ma ciò le fa traboccare l’ardore di vendetta, che da lì a poco si consumerà. Finalmente libera e non più sotto le angherie dei padroni, non più prigioniera della vendetta e del ricordo del sangue del padre, Elettra sentendo voci melodiche può raggiungerle e si libera definitivamente. Una morte forse riduttiva, ma consona ad uno spirito prigioniero che raggiunge la sua pace interiore.

Il regista ci vuole mostrare come questo dramma non sia solo un dramma di vendetta, odio, ma anche un dramma dell’eros. Innanzitutto eros tra Egisto e Clitemnestra, la passione non lecita, ridondante, che sfocia in camera da letto nel programmare l’assassinio di Elettra. E poi tra Oreste ed Elettra: l’idea di una vendetta che si può compiere, il fratello disperatamente creduto morto, il fratello eroe pronto a salvare la sorella, il fratello re, re Oreste, tutte queste idee spingono Elettra all’attrazione per il fratello. Elettra da belva si trasforma in seduttrice e inganna Egisto, che si lascia influenzare dal suo appetito di carne, reso cieco dal sesso, nonostante sia l’amante della madre della ragazza.

Rimane da aggiungere che il tempo che scorre, la vendetta inesorabile sono scandite ad intervalli, da spezzoni cinematografici che ricostruiscono una specie di thriller.

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È un dramma dove il maschile trionfa sempre sul femminile. Da un’età arcaica misogina, dove è l’uomo che comanda, ad un età moderna, dove poco è cambiato. Si può persino pensare che sia un dramma attuale, magari non con vicende uguali, ma pur sempre un mondo di drammi familiari, di spargimenti di sangue, donne segregate. Ma anche nel piccolo dove a volte può apparire la figura del genitore tiranno e della prigionia del figlio, ad un assillante supervisione, per diverse ragioni, che poi porta ad una inevitabile ribellione e ad un sentirsi liberi in qualcos’altro.

Una dramma sempre attuale, una dramma di libertà, psicologica e fisica.

Emanuele Biganzoli