Euripides Laskaridis mette in scena uno spettacolo giocato sulle contraddizioni e nel contempo produce un effetto disarmonico, a tratti consapevolmente, ma che fa uscire il pubblico dal teatro con molti interrogativi. Un esplosivo inizio ci accompagna in un’atmosfera burlesca, un lupo mannaro rivela la sua ferocia ma lo fa mostrando una poetica sensibile e commovente. I personaggi grotteschi ricordano creature che hanno attraversato la nostra infanzia, qualcosa di sopravvissuto al passato e che nel presente ritornano con sottile ironia. Lapis Lazuli è uno spettacolo dalla forte dualità e ci fa interrogare su chi sono i veri mostri, i crudeli, gli assassini… Il titolo prende spunto da una pietra dal colore blu, lapislazuli, che deriva dal latino e dall’arabo e che viene ripreso dal greco bizantino,il suo colore blu dovuto ad un’alta concentrazione di lazurite al quale vengono attribuiti svariati significati e proprietà spirituali. Tra il terreno e il celeste i performer si muovono con un linguaggio fatto di suoni vocali e di spari, si disperano si interrogano e si dimenano. Ed è ciò che più colpisce appunto di tutto lo spettacolo, la maestria degli interpreti che giocano in un teatro fatto di variazioni e contraddizioni. Uno spettacolo coinvolgente, misterioso, sognante e inquietante. Le maschere ti osservano sotto intrecci di luci e si avvia un viaggio che attraversa scambi di visioni, giochi di potere e crudeltà ampliate da voci dispotiche ed esaltate: chi è il vero cattivo? Quando arriva, il silenzio si fa denso e violento e lascia per un momento quell’ilarità iniziale. Un volto mascherato che si lascia intravedere a tratti e ci evoca una trappola, un varco che gli uomini non riescono ad affrontare, intrappolati dalle maschere della società. Il canto del lupo rivestito di ricchi diamanti esalta il potere della ricchezza e il rito sacrificale del maialino è compiuto.
Alessandra Lai
Ideato e diretto da Euripides Laskaridis Musiche originali di Giorgos Poulios Consulente alla drammaturgia Alexandros Mistriotis Scenografia di Sotiris Melanos Luci di Stefanos Droussiotis Effetti sonori di Yorgos Stenos Costumi di Christos Delidimos e Alegia Papageorgiou Oggetti di scena di Konstantinos Chaldaios OSMOSIS coordinamento e comunicazione produzione Onassis Stegi con il supporto di Fondation d’entreprise Hermès coproduzioneThéâtre de la Ville, Théâtre de Liège, Espoo Theatre Finland, Teatros del Canal, Teatro della Pergola Firenze, Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia, the Big Pulse Dance Alliance festivals: Julidans, Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, One Dance Festival cofinanziato dal Creative Europe Programme of the European Union con il supporto di Megaron – the Athens Concert Hall con il supporto del Ministero della Cultura Greco grazie a Onassis AiR Fellowship un ringraziamento speciale Dimitris Papaioannou & Tina Papanikolaou
Nella Sala Piccola delle Fonderie Limone è andato in scena il 20 ed il 21 settembre lo spettacolo Il combattimento di Tancredi e Clorinda, una co-produzione del Torinodanza Festival. Un piccolo gioiellino la cui narrazione si concentra sul contrasto tra amore ed odio e le emozioni che li accompagnano. Struggimento, paura, rancore e risentimento, vengono elegantemente rappresentati dai ballerini Gador Lago Benito e Alberto Terribile, accompagnati dall’intensa performance canora del tenore Matteo Straffi e del clavicembalista Deniel Perer. Quattro interpreti per 25 minuti di spettacolo, commovente, profondamente sentito. Uno spettacolo dalle vibrazioni antiche. La dolcezza e la naturalezza dei movimenti regalano autenticità ad una vera storia d’amore, finita nel peggiore dei modi. L’affetto profondo talvolta ci svela la profondità di chi ci si pone d’innanzi, rendendoci però ciechi, nel vederne le oscurità. Una storia d’amore destinata alla tragedia, un raggio di realtà indiscussa, una rappresentazione della guerra più antica del nostro mondo, quella contro noi stessi e la persona che amiamo, l’unica, talvolta, ad avere il potere, di renderci completamente vulnerabili. Tancredi e Clorinda, ci confermano nuovamente quale sia l’esito di un buio che incombe inaspettato, quando le certezze su cui abbiamo umanamente costruito ogni nostra aspettativa, decadono.
Poco quindi lontan nel sen d’un monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empiè nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide e la conobbe: e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
Non morì già, che sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi col ferro uccise.
Mentre egli il suon de’sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise:
e in atto di morir lieta e vivace
dir parea: “S’apre il ciel: io vado in pace.”
Una pedana è protagonista del palcoscenico, dalla forma circolare, bianca, rappresenta un mondo, forse il loro. Col volto coperto, i due amanti- combattenti, lottano, corrono e si rincorrono, fuggono e si cercano. Il suono di ogni passo sulla pedana ricorda un battito del cuore, mi sovviene alla mente il suono onomatopeico del ritmo cardiaco, un’eco dall’inesauribile forza e costanza. Ad un tratto il suono si ferma, il cuore non batte più, la battaglia è terminata e l’amore con esso. Una corda unisce indissolubilmente i due amanti, che cinti in vita da essa, si incastrano e si intrecciano, si scontrano e si liberano ma senza mai allontanarsi davvero. L’anatomia dei corpi dei ballerini, restituisce il più alto ideale della carne: attrazione e rifiuto, bellezza, possenza e virtù ed allo stesso tempo, come nell’opera: L’anatomia di un abbraccio di Luna Lu, lo spettacolo, ci regala la possibilità di indagare le anime di Tancredi e Clorinda e vedere due cuori legati ma fragili. Il coinvolgimento che ho provato è stato per me un coinvolgimento totale, ogni nota del canto, scritto da Torquato Tasso, era intrisa di suspense e attesa, la danza, dai movimenti puliti e precisi, ha reso la narrazione chiara e limpida. Una storia quindi che tocca l’anima di ognuno di noi che abbia conosciuto nel suo viaggio di vita l’amore e l’innamoramento e che abbia fatto anche i conti con la perdita, il dolore di un errore e la delusione.
Tancredi e Clorinda sono un paradosso che abita ancora i giorni nostri e che credo fermamente non morirà mai, uno spettacolo quest’ultimo che celebra la sconfitta come libertà e la vittoria come condanna. Le sconfitte ci liberano e aprono davanti a noi le strade più luminose, come Clorinda che ora, troverà la sua pace. La vittoria invece, accecante, ci richiede un prezzo da pagare, talvolta la nostra stessa esistenza.
Rossella Cutaia
regia e visual Fabio Cherstich coreografia e movimenti scenici Philippe Kratz musica Claudio Monteverdi danzatori Gador Lago Benito, Alberto Terribile tenore Matteo Straffi clavicembalo Deniel Perer
Ma che son parte di una immensa vita[…]” Dolce sentire
U.(Un Canto), in scena il 15 settembre, è il secondo spettacolo della programmazione del Torinodanza Festival 2024. Nel palco regna indisturbata la presenza dei coristi, i costumi di scena sono semplici, dalle linee pulite e dai colori neutri. Le luci fredde seguono il ritmo diaframmatico dei canti e con essi le parole stesse delle canzoni che sembrano interpretare. Esse contrastano il tiepido calore della sala e accompagnano con devozione, attenzione e cura i cantanti, durante tutta la loro performance. I microfoni dalle linee sottili, sono disposti discretamente sopra i loro scalpi, per amplificare quella che verrà presentata come una coreografia di voci. Alessandro Sciarroni, direttore dello spettacolo sceglie la voce come protagonista assoluta, mettendo la platea nell’ottica dell’invisibile, talvolta in movimento ci sono muscoli che non possiamo vedere, come le corde vocali dei coristi, le quali forti, vibrano intensamente investendo la sala di una calda e quasi austera atmosfera. I canti folkloristici scelti dal direttore raccontano la tradizione popolare italiana, si intonano canzoni sui temi dell’amore, della perdita, della famiglia ma anche della natura, della passione, della fede, della solitudine e dell’amicizia.
“Amo il profumo che vien dalla tua terra,
amo la luce e il colore del tuo cielo,
amo la pace delle tue montagne,
amo la voce delle tue acque.
Amo i misteri scolpiti sulle rocce,
sogni lontani persi dentro te,
guardo la valle che nasconde il nostro bene,
sorridi e il cielo rosa sembrerà.
Oh,oh!” Rosa Camuna
Le corde del passato vengono pizzicate delicatamente, rimbomba il suono della nostalgia, gli spettatori si lasciano trasportare dalle note dolci della musica, si lasciano essi cullare dalle polifoniche voci degli artisti i quali regalano l’illusione di poter ascoltare un’unica voce.
Co-prodotto dal Torinodanza Festival 2024, U.(Un Canto)è uno spettacolo che oltre a lavorare sul movimento invisibile, lavora anche sull’assenza di movimento: un solo passo viene effettuato dai coristi, una volta alla fine di ogni canto, un cammino, lento e disciplinato che li porta dal fondo palco fino a proscenio. La platea è silente, talvolta qualcuno intona flebilmente il canto in atto, in memoria chissà di qualche ricordo riportato alla luce. L’applauso al termine della performance è d’obbligo, la voce, strumento da tutti posseduto ma da pochi utilizzato consapevolmente, sia nella vita reale che in una prospettiva artistica, quale magia possiede: la forza e la potenza se usata in gruppo, l’unicità e l’originalità se usata da una persona soltanto. Il timbro, la firma inequivocabile della nostra voce, inimitabile. Un muscolo, la corda vocale, in grado di cambiare il mondo, dichiarare amore e odio, in grado di urlare una vittoria e sussurrare una sconfitta. La danza, fatta di muscoli, è da sempre indissolubilmente legata alla musica, alla canzone che essa interpreta. Danzano le voci con le corde vocali, con i muscoli del viso, della lacrima e del sorriso e noi, platea, abbiamo danzato con loro credendo di essere immobili. Questo spettacolo è travolgente; ancora una volta il Torinodanza Festival ci ha messo di fronte ad un estremo contrasto ed anche dinanzi alla consapevolezza che non tutto ciò che vediamo è come sembra. Bisogna muoversi, fisicamente e mentalmente, per poter andare oltre e danzare là dove nessuno aveva mai danzato prima, come il coro di Alessandro Sciarroni.
Rossella Cutaia
diAlessandro Sciarroni conRaissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli casting, direzione musicale, training vocale Aurora Bauzà & Pere Jou casting, consulenza drammaturgica training fisicoElena Giannotti styling Ettore Lombardi disegno luci e cura tecnicaValeria Foti cura, consiglio e sviluppoLisa Gilardino Corpoceleste_C.C.00#, Marche Teatro Teatro Di Rilevante Interesse Culturale Progetto Ring: Festival Aperto – Fondazione I Teatri Reggio Emilia, Bolzano Danza – Fondazione Haydn, Fog Triennale Milano Performing Arts Torinodanza Festival, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
<<Il fatto che qualsiasi insieme di condizioni (HOW) si traduca sempre in incentivi specifici (WHY) per gli individui coinvolti, è ciò che definisce il ruolo del coreografo. Poiché c’è sempre il problema di dover predefinire queste condizioni//incentivi, in base alla propria visione del mondo. Domande primordiali come autorità, sovranità, libertà, verità, entrano in gioco nel processo di definizione delle condizioni coreografiche.>> Emanuel Gat
Con Freedom Sonata Emanuel Gat inaugura il Torinodanza Festival 2024. Il pubblico è scalpitante nell’attesa di vedere in prima assoluta il nuovo spettacolo del pluripremiato coreografo. Quattordici ballerini danzano sulle note di Kanye West per la Sonata della libertà. L’esibizione è dinamica, fluida, armonica, i movimenti dei ballerini sono un tutt’uno con la musica, non sono ammesse dissonanze, la coordinazione sembra essere la chiave di questa danza polifonica.
La coreografia di Emanuel Gat sembra raccontare della quotidianità, del tempo che passa, della fragilità dell’essere umano e della sua forza. Questo spettacolo parla della vita umana, un pendolo che oscilla tra dolore e gioia passando attraverso un fugace attimo di pura danza. La vita non è solo in bianco e nero, è anzi colma di sfumature, ombre e luci che la Emanuel Gat company ci racconta attraverso il movimento e la scenografia. Il tappeto danza da nero, diventa bianco, anche i colori dei costumi dei performer si invertono, da un puro e fanciullesco bianco ad un più maturo e profondo nero. Il coreografo sembra quindi porci dinanzi ad un’etica del contrasto; la totale assenza di colore e la luce sfavillante, il palco con i suoi danzatori sembra ormai essere un negativo della realtà. I ballerini, un rotolo alla volta, distendono il nuovo tappeto collaborando fra di loro, per un momento la magia della danza si ferma e lascia spazio alla magia dell’umanità, l’uomo, animale sociale, il quale coopera con altri suoi simili nell’inconscia speranza di imparare il valore dell’amicizia, dell’amore e della solitudine. Il tappeto diventa il simbolo della trasformazione, su di esso rimbalzano le luci ed i ballerini alternano momenti di gruppo a momenti dedicati a performance da solista, una ballerina cerca il suo equilibrio su una sottile linea d’ombra. La spensieratezza nei movimenti dei performer presto si trasforma in tormento e poi ancora in leggerezza, i ballerini sembrano incarnare l’esatto momento nel quale ognuno di noi da fanciullo diventa adulto, un momento dove il passare del tempo diventa concreto e inesorabile e la cui unica modalità di affrontarlo sembra essere quella di lasciarsi andare, liberi di esprimere il proprio rapporto con gli altri e con sé stessi, liberi di farsi trasportare dai ricordi e dai sentimenti, liberi di condividere carezze affettuose o lotte impetuose. Il corpo parla dell’anima che lo abita, la carne ne racconta il passato, morbida è la musica che guida il nostro sguardo nell’interpretazione di ogni movimento e così ci lega, indissolubilmente, a quella coreografia che ora, è anche un po’ nostra. La vita è essa stessa una coreografia, ossia “un sistema operativo che consente ad individui e gruppi, di creare e condividere contenuti e significati attraverso l’azione” (Emanuel Gat).
Il diaframma dei ballerini si contrae sempre più, la fatica è visibile anche dalla platea, il respiro si affanna ed i passi sono sempre più pesanti. La sensazione di leggerezza e spensieratezza però non mi lascia, vorrei anche io ballare con loro, su quel tappeto. Vorrei imparare a lasciarmi trasportare, da ciò che accade, talvolta dagli altri o dai suoni della città, da una Sonata magari, da una Freedom Sonata.
L’eco degli applausi sovrasta le grida di approvazione, la disciplina è finita e quel silenzio che aveva governato la platea, curiosa e attenta, ora si rompe in un grido di libertà.
Lo scorso 4 giugno, presso il Teatro Gobetti, si è tenuta la conferenza stampa della stagione 2024/2025 del Teatro Stabile di Torino, dal titolo “Atto Unico”. Un anno di festeggiamenti, giacché ricorrono i 70 anni del Teatro Stabile di Torino e i 50 anni del Centro Studi. Settant’anni come settanta sono gli spettacoli che verranno messi in scena, come sottolinea il direttore, Filippo Fonsatti.
Medea: una tragedia classica di Euripide molto nota per chi ha avuto occasione di confrontarsi con i testi classici. In questa rappresentazione alle Fonderie Limone la figura tanto ambivalente della protagonista mostra al pubblico la propria disperazione e sofferenza in un momento di introspezione accentuato dalla scelta scenografica del regista Leonardo Lidi: una stanza vuota con dei vetri in plexiglas che separa il pubblico dall’azione e permette di concentrarsi sulle emozioni provate dai personaggi.
Veri protagonisti di questa tragedia sono le donne oggetto di persecuzione per la loro disperazione, origine, conoscenze e capacità, oppure vittime della situazione perché usate per l’acquisizione di potere. Situazione purtroppo ancora attuale per le donne di oggi che se istruite o con idee critiche scomode vengono emarginate o prese poco sul serio. Lo spettacolo vuole farsi emblema della lotta femminile che dai tempi della classicità non è cambiata molto nella sua sostanza. Ma senza cadere in discorsi già più che affrontati e ripetuti, un’altra tematica molto importante è quella della patria, e quindi della donna migrante. Oggi è ben noto il problema dei profughi di guerra che vogliono giungere in Europa nella speranza di trovare condizioni di vita migliori. Molto spesso questo non accade, anzi chi scappa si ritrova come Medea senza una patria che le/li protegga e viene poi spesso irretito dalla criminalità. E se già per gli uomini sembra difficile adattarsi, per le donne la sfida è ancora maggiore.
Nonostante questa interpretazione moderna, nella rappresentazione non viene meno l’ambiguità del personaggio principale, per cui se da un lato il pubblico è portato a empatizzare per la sua condizione dall’altro inorridisce ai suoi intenti omicidi e atteggiamento che sfiora per molti aspetti la pazzia, grazie alla recitazione di Orietta Notari. Per quanto la tentazione di un’interpretazione in chiave femminista del mito sia forte, non bisogna dimenticare la vera motivazione che ha portato alle uccisioni nella tragedia. Medea uccide per vendetta nei confronti del marito con raccapricciante premeditazione. La sua è una vendetta egoistica dettata dall’orgoglio per un oltraggio subito: uccide la nuova moglie e i figli per privare il marito Giasone della sua progenie e quindi della sua dignità maschile.
Medea è giustificabile? Si tratta di un dilemma irrisolvibile, per cui è impossibile vederla riduttivamente come personaggio positivo o negativo. L’interpretazione dichiaratamente femminista su cui si incentra lo spettacolo non è sufficiente a giustificarne il gesto e sarebbe piuttosto riduttiva vista la complessità del personaggio. Ma allo stesso tempo, un’interpretazione apertamente femminista è necessaria in un momento storico come quello attuale in cui le donne, come ampiamente discusso in diversi ambiti anche fuori da quello teatrale, sono penalizzate su più fronti.
Colgo l’occasione per citare parole della stessa Medea che potrebbe pronunciare qualsasi donna oggi per le ragioni più diverse: “Soffro, lo capite che soffro?”.
Linda Steur
Da Euripide
Traduzione Umberto Albini
Regia Leonardo Lidi
Dramaturg Riccardo Baudino
Con Orietta Notari, Nicola Pannelli, Valentina Picello, Lorenzo Bartoli, Alfonso De Vreese, Marta Malvestiti
Come un Giano bifronte questo spettacolo del Teatro Stabile di Torino mostra due facce della stessa medaglia che si prestano a molteplici interpretazioni. Abbiamo modernità e antichità che si mescolano nella tragedia storica di Shakespeare, reinterpretata sia in qualità di attore che di regista da Valter Malosti in una visione comica e disincantata, in cui l’Eros non può essere vincitore sulla ragione e il rigore del contesto storico per quanto possa essere passionale e contraddittorio.
Alla propaganda della bellezza, soprattutto in Italia, siamo esposti fin da piccoli: ci svezzano a pane e bello; e se non è dannoso, ci induce quantomeno a un’errata postura nell’accostarci a oggetti che vanno tutti sotto un unico cappello: “arte”. Così finiamo per osservare un quadro di Giotto, un’icona bizantina e una pittura romantica con le stesse lenti della bellezza, spesso unita a un altro concetto, ugualmente utilizzato a sproposito, logoro: il concetto di “genio”.
Le icone bizantine, infatti, non sono fatte per la loro bellezza o per leggervi la bravura dell’artista – peraltro, in questo contesto, perlopiù sconosciuto – ma sono uno strumento di preghiera; strumento, come un tavolo, una sedia, un cucchiaio, una forchetta.
È bene tenerlo a mente, perché a forza di interpellare la bellezza, si rischia di perdere una visione della l’arte che dovrebbe rimanere per lo più poliedrica e totipotente.
E il teatro, tra le sue varie funzioni, ha quello di documento, documento storico, ci può aiutare nell’esercizio della memoria; e così come le Stolpersteine (le pietre di inciampo) dell’artista tedesco Gunter Demnig o Shoah di Claude Lanzmann si emancipano dalla loro natura artistica e diventano documento storico, così anche L’istruttoria di Peter Weiss, recitato al Teatro Gobetti dal 23 al 28 gennaio dagli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino diretti da Leonardo Lidi, testo questo che utilizza i mezzi del teatro per diventare uno strumento del ricordo.
È bene ricordare che non siamo di fronte a una drammaturgia, il testo infatti non forza i confini del dramma, ma si pone in un altro spazio nettamente diverso e separato da un testo drammaturgico. Siamo di fronte a un Oratorio, strutturato in 11 canti (il pensiero va a Dante) composti a partire dagli appunti stilati da Weiss durante le sedute dei processi penali contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz, che si tennero a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965. Questo fu il primo processo voluto dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’olocausto. Nelle 183 giornate di processo vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali sopravvissuti al campo di sterminio.
I modi per attivare questo dispositivo della memoria non sono univoci. In Italia ricordiamo due modalità in cui è stato fatto. Nel ’67 Virginio Puecher per il Piccolo Teatro portò questo testo in spazi molto grandi: palazzetti dello sport, palazzi delle esposizioni, usando massicciamente le tecnologie e ibridando materiali eterogenei. Il risultato è quello del corpo di un performer che si dà ma viene continuamente negato annullato, oppresso dai media. Per esempio, vediamo i volti attraverso lo schermo dal momento che danno le spalle al pubblico, pezzi di documentari si alternano al testo di Weiss. (Usiamo la parola performer per la difficoltà qui di adoperare parole come attore o messa in scena; nel tempo che viviamo lo spettacolo tende a fagocitare ogni aspetto, soprattutto a teatro).
In aggiunta l’impianto scenografico di matrice costruttivista di Josef Svoboda, che crea un setting da studio televisivo, evitando un unico punto focale, accentua lo straniamento, lo spettatore è costretto, pungolato, ad assistere alla testimonianza. Il teatro si pone come strumento efficace di documentazione e memoria perché è un documento incarnato nel presente, opera un corto-circuito tra passato e presente, fa rivivere la storia. Inchioda lo spettatore alla vergogna.
Una foto del lavoro portato nel ’67 da Virginio Puecher
Un’altra via percorribile è quella che sceglie il Collettivo di Parma nell’84 con la regia di Gigi Dall’Aglio.
Un’esecuzione intima, quasi un rito, altrettanto ustorio: in un ambiente nero, lo spettatore è costretto a sostare in piedi in diversi spazi, per tutta la durata del primo canto. Gli oggetti che vediamo possiedono un grande potere evocativo, come nel secondo canto: mentre si racconta dell’espoliazione delle vittime, un uomo e una donna con le loro valigie sono portati al centro e fatti spogliare, le loro valigie vuotate, e gli oggetti disposti con cura davanti a loro. Sul finale, il piccolo spazio scenico è inondato di fumo e forti luci, per cercare di evocare l’orrore delle camere a gas.
Questo rito laico è in repertorio e viene riproposto a Parma ogni anno.
L’istruttoria a Parma per la regia di Gigi Dall’Aglio
Il lavoro curato da LeonardoLidi a cui abbiamo assistito adotta invece un’impronta estremamente minimale. Nel voler portare a teatro il racconto delle vittime e dei carnefici di Auschwitz l’intento di Lidi, assieme agli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile, sembra quello di voler spogliare di ogni orpello il rito della recita, lasciando la nuda testimonianza unica vera protagonista. Scrive infatti Lidi nel programma di sala che “l’importante non fosse creare un vero e proprio spettacolo, ma un momento di sincera condivisione sociale assieme alle persone venute per ascoltare ma anche per partecipare ad una giornata di grande importanza”. È per creare un’atmosfera di condivisione, dunque, che il pubblico entra in sala trovando già presenti gli interpreti sparpagliati per la platea, quasi come entrassero in una piazza, e che le luci rimangono accese fino agli ultimissimi istanti della performance. Il pubblico vede gli interpreti, gli interpreti vedono il pubblico. Sul palco l’impianto scenico è asettico, composto unicamente da una struttura a gradoni bianchi. I performer, in giacca nera e camicia bianca (eccezion fatta per i carnefici, in sola camicia bianca), una volta presa posizione su di essi restano quasi esclusivamente fermi sul posto, alzandosi solo per parlare. Il movimento più presente è quello dei microfoni, passati di mano in mano per far parlare i vari testimoni. La testimonianza viene trasmessa in maniera diretta, pronunciando il testo senza particolare inflessione, senza lasciar trasparire alcun sentimento di troppo. Sarebbe stato fin troppo facile lasciarsi andare ad un’interpretazione emotiva del testo, lasciarsi trasportare dall’orrore delle immagini da esso evocate. Troppo spesso le opere che trattano questo argomento tendono a scadere nel sentimentalismo, nella riproposizione patetica degli eventi, andando così a minare il messaggio di fondo: “è accaduto. Può accadere ancora. Non dobbiamo lasciare che accada”. In questo senso Lidi e gli allievi dello Stabile operano invece un rigoroso esercizio di sottrazione, e le poche emozioni che traspaiono dai volti dei performer sappiamo essere autentiche, uno scorcio nei loro pensieri che ci è dato vedere quasi per sbaglio, non simulate o evocate per la scena. Lo stesso non si può dire di alcuni individui del pubblico, che forse perché illuminati per tutto il tempo e dunque presi nell’insieme tendono talvolta a dimostrare platealmente con ampi movimenti della testa il proprio sdegno per gli eventi descritti. Questo lavoro porta all’estreme conseguenze l’atto del vedere insito nel teatro sin dal suo etimo, mentre guardiamo, da una parte il racconto è talmente insostenibile che dobbiamo abbassare lo sguardo, dall’altra è una mano che ci fa alzare la testa e ci riporta al dovere della memoria. Il dolore dell’olocausto, che poi è dolore dell’umanità tutta perché è il fallimento per antonomasia dell’umanità, traspare in tutta la sua violenza dalle semplici parole, dalla pulizia con cui vengono enunciate. In un terreno d’indagine in cui ogni cosa, anche dare e ricevere applausi, rischia di apparire irrispettoso o non adatto, un approccio come quello qui messo in atto mostra una qualità di giudizio lodevole da parte di Lidi e degli interpreti. Tutto è sottratto per lasciare posto all’evidenza di ciò che è stato. “È fondamentale” scrive sempre Lidi nel foglio di sala “evitare il più possibile il rischio inopportuno di spettacolarizzazione del dolore, una trappola frequente che dovremmo combattere proprio a fianco delle nuove generazioni”.
E se qualcuno ahimè quest’anno volesse mettere in discussione la legittimità di ricordare la shoah, bisogna ricordare che la memoria della shoah è di tutti, come scrive Anna Foa: “In questo terribile conflitto, in cui due estremismi opposti si combattono nel dolore delle vittime di entrambe le parti, ora l’importante è fermare l’operazione bellica che sta distruggendo Gaza e che sempre più precisa come suo obiettivo l’annessione dei territori occupati a formare una grande Israele. Vedremo risorgere, con tutti i suoi limiti, ma anche con le sue aperture e le sue speranze, l’antica Israele dei suoi padri fondatori, e vedremo i palestinesi disfarsi degli estremisti e lavorare alla creazione di uno stato che viva in pace coi suoi vicini? Per quanto difficile sia, distruggere la memoria del maggiore genocidio del Novecento, oppure anche soltanto lasciarla come patrimonio solo degli ebrei, sottraendola all’umanità intera, non può certo aiutare a raggiungere questo obiettivo.”
È importante che a realizzare questo lavoro siano degli attori in formazione: tra le prerogative di un attore non è secondaria quella di porsi come custode della storia. In un presente in cui la memoria tout-court tende a essere merce rara, gli attori possono esserne il veicolo.
di Peter Weiss con gli allievi della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino (in ordine alfabetico) Alessandro Ambrosi, Francesco Bottin, Cecilia Bramati Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Hana Daneri Alice Fazzi, Matteo Federici, Iacopo Ferro Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo Diego Pleuteri, Emma Francesca Savoldi Andrea Tartaglia, Nicolò Tomassini, Maria Trenta regia Leonardo Lidi regista assistente Francesca Bracchino scene Fabio Carpene Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale
Dal 19 dicembre 2023 all’1 Gennaio 2024, al Teatro Gobetti, è andato in scena lo spettacolo Arlecchino Furioso. La compagnia Stivalaccio Teatro, che si occupa di teatro popolare, teatro per ragazzi e arte di strada, in questa occasione ci riporta indietro nel tempo seguendo la tradizione della Commedia dell’Arte.
“Sono dinamici e creativi i giovani di Stivalaccio Teatro, e anche coraggiosi nel dedicare le loro energie a un genere di nobile tradizione e di alta specializzazione qual è la Commedia dell’Arte, che li porta a confrontarsi con interpreti giganteschi e insuperabili”.
Questo ciò che viene detto della compagnia in occasione del Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici Teatro 2023, che gli viene assegnato proprio al Teatro Gobetti.