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Matilde e il tram per San Vittore

Il sipario è aperto quando ci sediamo in platea. Delle grandi e alte lastre di ferro sovrastano il fondo del palco in una fila orizzontale che sembra infinita, e in mezzo alla scena vediamo solo un tavolo con due panche, anch’essi di ferro. L’atmosfera è quindi fredda, pesante, inquietante, come lo è il tempo in cui saremo catapultati a breve.

Del resto siamo in una fabbrica, e l’ambiente non può altro che essere grigio e opprimente. Ce lo rivela la prima attrice che entra in scena, iniziando a raccontare la storia dei tre grandi scioperi partiti dalle fabbriche di Milano dal 1943, durante la seconda guerra mondiale. Migliaia di operai, stanchi delle condizioni di lavoro inumane, della fame, della vita che stavano conducendo sotto la scure fascista, si ribellano con fierezza alla logica della guerra: se non si fabbricano più le armi, forse anche la guerra finirà. A seguito dello sciopero del 1943 ce ne furono altri due, nel ’44 e nel ’45: una lenta marcia verso la deportazione e la morte per centinaia di operai.

Presto scopriamo che le attrici in scena saranno tre, ma le anime a cui daranno voce sono molte di più: tratto dal libro Dalla fabbrica ai lager di Renato Sarti, lo spettacolo rende giustizia alle storie delle donne, madri, figlie, sorelle degli uomini deportati nei campi nazisti, che prendono vita attraverso l’impeccabile performance artistica di Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola: emozionanti, emozionate, ci trasportano in un epoca buia con le loro parole e azioni taglienti come lame.

Le vicissitudini di queste famiglie si susseguono senza sosta, dando vita a un puzzle che sembra quasi impossibile: la paralisi dei grandi stabilimenti del milanese porta alla paura di essere trovati dalla polizia nazifascista, allo smarrimento di non sapere che fine abbiano fatto i propri uomini.

Poi c’è la speranza di poterli rivedere, di potergli portare vestiti e viveri prima che siano trasferiti a “lavorare” in Germania: là fa freddo, ci ricordano le voci che aleggiano come fantasmi disperati intorno a noi, ed è necessario riuscire a portare ai cari in partenza almeno il cappotto. La frenesia del viaggio attraverso le stazioni lombarde di queste donne viene resa perfettamente dalla recitazione che si fa sempre più ritmata, come una marcia, quasi esasperata, fino ad arrivare alla partenza del treno, verso una meta ignota. Tante donne non erano nemmeno riuscite, nella calca impazzita, a salutare i figli, i mariti, i fratelli, a dargli il maglione o il tozzo di pane che avevano preso repentinamente da casa prima di andare di corsa alla stazione più vicina per raggiungerli.

E tante donne non parleranno nemmeno più con i loro familiari, amici: l’ultima parte dello spettacolo è infatti dedicata alle storie di chi non è più tornato, del vuoto che ha lasciato nel cuore e nelle case di molte famiglie. Ma anche a chi è riuscito a tornare, e negli occhi e nel cuore non ha più avuto lo stesso vigore con il quale era partito: uomini che non riusciranno mai a esprimere la sofferenza che hanno visto e vissuto sulla loro pelle, ma che ogni notte piangeranno in silenzio accanto alle mogli apparentemente addormentate.

Notevole la regia, che attraverso le luci ha esaltato perfettamente i sentimenti di panico, dolore, paura, smarrimento provati dalle tante donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro storia. Inoltre è stato dato grande rilievo alla componente uditiva, soprattutto durante i racconti delle retate notturne nazifasciste: grazie all’uso abile delle componenti scenografiche in ferro, le attrici riuscivano a far emergere, almeno in parte, quella che doveva essere la confusione e il terrore dato anche dai forti rumori e suoni che rimbombavano nella notte silenziosa.

Una Resistenza, quindi, narrata in modo commovente dal punto di vista femminile di donne forti che si sono trovate improvvisamente a gestire situazioni impensabili, di violenza, miseria e dolore. Come ricorda infatti il regista Renato Sarti: “Fin dalle tragedie greche la voce delle donne è quella che meglio di ogni altra riesce a rievocare l’orrore della guerra, che sempre nuovo, purtroppo, si ripete”.

 

Di Alice Del Mutolo

 

di Renato Sarti
dal libro di Giuseppe Valota Dalla fabbrica ai lager
con Maddalena Crippa, Debora Villa, Rossana Mola
regia Renato Sarti
scena e costumi Carlo Sala
musiche Carlo Boccadoro
luci Claudio De Pace
progetto audio Luca De Marinis
dramaturg Marco Di Stefano
Teatro della Cooperativa
sostenuto da NEXT 2017/18 – Regione Lombardia con il patrocinio di ANPI, Istituto Nazionale Ferruccio Parri
e ISEC e dei comuni di Albiate, Bresso, Cinisello Balsamo, Monza e Muggiò con il sostegno di ANED

 

 

 

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE: UN’INCONSCIA VISIONE DI UNA METAFORA D’ AMORE

Per la seconda volta, a distanza di pochi giorni mi ritrovo ad assistere ad un nuovo spettacolo al Teatro Carignano. Questa volta si tratta di Sogno di una notte di mezza estate diretto da Elena Serra.
Il teatro, sia per Romeo e Giulietta che per Sogno di una notte di mezza estate si è prestato ad un mutamento scenografico, allargando il palco fino a metà spalti e ricoprendolo di erba sintetica, quasi come se fosse una vera e propria scena elisabettiana.
Se con Romeo e Giulietta rimasi entusiasta per la freschezza degli attori nel rendere la tragedia una visione fanciullesca, nel Sogno la compagnia si è superata. Questi giovani attori sono riusciti a dare un qualcosa in più.

Non è la prima volta che assisto alle loro rappresentazioni e man mano, spettacolo dopo spettacolo, emergono nuove sfaccettature del loro modo di lavorare .
Questa volta, quello che mi ha colpita è stata il senso di interezza che sono riusciti a far emergere da una delle più famose commedie di Shakespeare, rendendo le parti uniche nel loro genere. Visto che il testo non ha un unità di tempo o di spazio, la regista ha potuto sfruttare a pieno il palco, utilizzando enormi cuscini dai quali fuoriescono una buona quantità di foglie, inserendo una fontana da cui sgorga acqua dove alcuni attori si siederanno, si bagneranno e si uniranno in un unico corpo ed infine facendo muovere tutti loro in danze ritmicamente nevrotiche con la musica dei Laibach. Inoltre i costumi degli attori passano da una maestosità contemporanea ad una semplicità quasi medievale.
Sicuramente nelle parole di Elena (Annamaria Troisi) un po’ tutte le donne o prima o dopo si sono ritrovate. La sua disperazione per il rifiuto continuo del suo amato Demetrio (Christian Di Filippo), ogni volta che lo rincorrere non fa altro che peggiorare la situazione, mentre la vivacità di Ermia (Barbara Mazzi), il suo essere algida nei suoi confronti lo porta ad innamorarsi di lei ma la giovane Ermia ha occhi solo per Lisandro, il suo unico amore (Marcello Spinetta). Insomma vedremo un bel quartetto in azione.

Ogni attore, in questa rappresentazione ha cercato di creare un siparietto divertente, come quello di Oberon (Vittorio Camarota) insieme al folletto Robin (Raffaele Musella) che oltre ad essere tecnicamente encomiabili sono riusciti ad avere una buona presenza sul palco utilizzando capriole, sbeffeggiamenti e una timbrica maestosa.

Ottima anche Titania (Beatrice Vecchione) che rimarrà fissa sulla fontana ma questo non le impedisce di ammaliare con la sua presenza scenica e con le sue alterazioni vocali proprio come la fata, Fior di Pisello (Giorgia Cipolla) che vedremo addirittura cantare.

Ed il padre di Ermia, Egeo (Alessandro Conti) il quale avrà una voce robotica e sarà posizionato su una “balconata”.
Ed infine i due soldati di Atene Nick Bottom (Angelo Tronca) e Peter Quince (Yury D’Agostino) che hanno creato un siparietto niente male, inscenando all’interno della commedia, la tragedia di Romeo e Giulietta con un’ironia e un sarcasmo che ha coinvolto tutto il pubblico, suscitando impeti di applausi e calorose risate durante la rappresentazione.

Insomma il progetto del “prato inglese” direi che ha dato i suoi frutti, portando in questo caso nel Sogno di una notte di mezza estate il tocco di una donna che ha affrontato la commedia shakesperiana con un’inconscia visione di una metafora d’amore.

di William Shakespeare
con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti

regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Recensione di: Alessandra Nunziante

Marco Cavallo per i 40 anni della Legge Basaglia

Il secondo appuntamento della rassegna Quello che tutti chiamavano manicomio, promossa da Lavanderia a Vapore, Fondazione Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e Comune di Collegno in occasione del quarantennale della Legge Basaglia, ha ospitato il 7 Marzo sul palco della Lavanderia La storia di Marco Cavallo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Selve. La regia è di Franco Acquaviva, che è anche l’attore solista presente sulla scena, e l’aiuto alla regia è di Anna Olivero.

All’interno della cornice della rassegna occorre mettere in luce lo spirito col quale nasce il Teatro delle Selve: fondato nel 1998 da Franco Acquaviva e Anna Olivero, si impegna a promuovere una idea di cultura teatrale in grado di valorizzare le relazioni tra l’ambiente e la memoria che lo abita. Appare chiara l’aderenza rispetto al tema proposto dall’iniziativa e al luogo dello spettacolo: l’attuale Lavanderia a Vapore nasce infatti dalla ristrutturazione di quelle che erano le originarie lavanderie del manicomio di Collegno (questo l’ambiente) ed entra in pieno contatto con il tema proposto, volto a ricordare e riattualizzare il problema dell’esclusione sociale (questa la memoria collettiva). Come ci ricorda lo stesso regista infatti lo spettacolo “appare necessario oggi che molte delle conquiste sociali e civili di quegli anni sono messe in discussione” e la sua idea nasce principalmente da un bisogno di dialogo e di apertura sociale.

La storia di Marco Cavallo parla di quella che fu la prima esperienza di animazione teatrale condotta all’interno di un manicomio. Nel 1973 a Trieste, su idea di Franco Basaglia, un gruppo eterogeneo di persone (fra cui pittori, registi, insegnanti, scrittori, fotografi, animatori) decise di mettere a disposizione la propria professionalità per cercare un nuovo modo di stare insieme e modificare la realtà ancora chiusa e crudele del manicomio. Attraverso la creazione di un grande cavallo di legno e cartapesta dal colore azzurro, simbolo della gioia di vivere, e dalla pancia simbolicamente piena dei desideri di tutti i pazienti, l’esperienza aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare il modo di essere del teatro e della cura. Portata a termine la costruzione del cavallo venne infatti organizzata una grande parata per le vie di Trieste e il quadrupede di cartapesta divenne immediatamente il simbolo per eccellenza della liberazione manicomiale.

Il testo di Franco Acquaviva nasce dalla convergenza di diverse fonti rielaborate all’interno di una cornice drammaturgica creata specificamente per lo spettacolo. Marco Cavallo, il testo a cura di Giuliano Scabia, uno dei maggiori protagonisti dell’azione teatrale del ’73, è l’opera di riferimento, alla quale si aggiungono frammenti di altri testi che disegnano una situazione di teatro nel teatro con tre personaggi e diverse figure minori. Un teatro di narrazione, quello che il regista ci propone, attraverso una e-vocazione (più che una ri-evocazione) dell’atmosfera, delle idee e delle difficoltà proprie di quell’esperienza. L’attore, attraverso la forza della sua fisicità, crea un ricco tessuto di voci che dialogano nel corso della vicenda seguendo un ritmo sempre sostenuto, mai scontato. Il tutto prende avvio da un personaggio che ricorda un’esperienza risalente agli anni universitari, nei quali fu mandato a Trieste dal suo professore di Storia del teatro, nel manicomio quasi dismesso della città. Il suo compito era intervistare il responsabile di un laboratorio teatrale che si sarebbe realizzato nei padiglioni coi pazienti, ma inaspettatamente si ritrovò ad essere parte attiva dello spettacolo, dedicato appunto a Marco Cavallo.

Alle curiosità, ingenuità e resistenze del ragazzo si intrecciano il racconto dell’esperienza storica e le manie bizzarre e divertenti della compagnia dei matti. Nel reparto P troviamo un teatro partecipato, sudato, vissuto in comunità, “un gioco che però impegna”, nel quale i malati riescono a vedere un’attività libera, in cui poter fare ciò che desiderano. Lo studente, inizialmente scettico e dubbioso riguardo all’utilità dell’esperienza, grazie alla sua prolungata permanenza e al dialogo creato a mano a mano con la realtà che lo avvolge, riesce a comprenderne il valore, superando la crisi nata in lui in seguito all’uscita dall’ambiente universitario. Il ragazzo fa così ritorno dal professore senza aver compiuto l’intervista, ma portando con sé una diversa consapevolezza. L’attenzione portata dal regista sui muri interni alla mente dello studente ne è solo un esempio. Muri che, inoltre, ci riportano con un tuffo spontaneo nel presente, ai tanti muri, reali o simbolici, che la contemporaneità continua ad erigere nei confronti dell’altro. Uno spettacolo che, pur portando in scena un’esperienza passata, si dimostra nei suoi contenuti quanto mai attuale, rivolgendosi ad un pubblico appositamente composto da studenti liceali e universitari.

L’autore ci lascia con un messaggio: “la follia è un modo per uscire da se stessi”. Il teatro può rappresentare questa via, laddove esso non è semplicemente vita, ma “vita più follia”. Follia che deve essere insegnata a tutti perché è elemento positivo della vita, come l’acqua e il fuoco.

Si ricorda infine che il 19 marzo si è tenuto un prezioso incontro pubblico organizzato da Fondazione Piemonte dal Vivo e Lavanderia a Vapore presso il Polo del ‘900, nel quale sono intervenute importanti figure: Giuliano Scabia, Peppe dell’Acqua, Renato Sarti e Massimo Cirri. La riunione ha voluto rievocare il clima e le esperienze di quegli anni unitamente alla storia di Franco Basaglia per coinvolgere il pubblico in una riflessione partecipata sulla psichiatria.

 

recensione di Linda Casoli

La storia di Marco Cavallo

di e con Franco Acquaviva

aiuto regia Anna Olivero

produzione Teatro delle Selve 2014

con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal vivo – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo di Torino, Comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo

 

Teatro, salute e disuguaglianze

“ll teatro è politica fatta con altri mezzi” ci ha ricordato a suo tempo Eugenio Barba. Se questa massima non si è sbiadita si riconferma oggi più attuale che mai, ribadendo quel dovere proprio di tutti gli addetti al multiforme settore dello spettacolo dal vivo di farsi carico di una non secondaria responsabilità. La chiamata si fa tanto più impellente quanto più si sfilaccia la comunità che la genera, in un presente storico nel quale la partecipazione politica non è delle più fortunate e la fatidica forbice fra cittadino e istituzioni va intensificandosi anziché accorciarsi.

Quel vasto territorio pedagogico, artistico e politico che oggi si definisce sotto il nome di Teatro sociale e di comunità sembra accettare tale sfida e accoglierne le problematiche pratiche e le contraddizioni metodologiche. Si è svolta a questo proposito, il primo di febbraio, una giornata internazionale di studio dal titolo Teatro, salute e disuguaglianza. Dodici ore di lezioni, approfondimenti e tavole rotonde organizzate dall’Università di Torino presso l’Aula Magna dello stesso ateneo e il Teatro Vittoria di via Gramsci. Docenti, operatori, esperti e ricercatori si sono succeduti in un exploit di esposizioni che avessero, come ha sottolineato l’Assessora Monica Cerutti, un comune filo rosso che riconducesse ad una impellente quanto scottante tematica: l’ascolto della persona. Una materia complessa che richiede un approccio trasversale ma al contempo delicato, in un contesto amministrativo nel quale, al contrario, l’ambito pubblico sembra ragionare per compartimenti stagni.

L’unità di ricerca del PRIN – Per-formare il sociale, riallacciandosi a quell’antica tradizione di un teatro come forma di cura, vuole riaggiornare l’argomento all’epoca dell’istituzione sanitaria, all’insegna delle nuove strategie comunitarie e delle pratiche artistico-terapeutiche, affinché il teatro sociale possa acquisire un suo autonomo statuto scientifico. Si ricorda a tal proposito che il teatro sociale così inteso è nato proprio sul suolo torinese e che la sua natura democratica e paritara lo rende uno strumento efficace sia all’interno delle performing-arts sia come risorsa per i settori socio-sanitari e socio-educativi. Chi ha a cuore la comunità come produttrice di cultura e la cultura come indicatore di salute della stessa comunità non può prescindere dal promuovere le possibilità dell’arte di coltivare i rapporti sociali laddove ve ne sia carenza. Il Social Community Theatre Centre (SCT) dell’Università di Torino, diretto da Alessandra Rossi Ghiglione e ideato insieme ad Alessandro Pontremoli, forte di una lunga esperienza sul campo, offre oggi una metodologia riconosciuta a livello internazionale, un dispositivo culturale di innovazione sociale e di contrasto alle disuguaglianze.

Per contro bisogna tener presente che chi il teatro lo fa da una vita ha a cuore il suo ruolo professionale e difficilmente accetterà con serenità di condividere il suo bagaglio di competenze con una fetta di pubblico estranea al suo mondo operativo. O, se lo farà, ne trarrà ben poca soddisfazione. Questa impasse viene portata alla luce dall’intervento di Pier Luigi Sacco. Il Professore dell’Università IULM di Milano, infatti, sottolinea li rischio considerevole di strumentalizzazione culturale ai fini terapeutici cui lo strumento artistico in mano ai non artisti può andare incontro. In altre parole sarebbe facile ritrovarsi a somministrare dosi di pratiche teatrali in sostituzione a prescrizioni mediche. Siccome non sono disponibili facili risposte, la necessità è quella di co-progettare a stretto contatto con gli artisti del teatro che siano volenterosi di farlo, per rispettare un ampio spettro di competenze preziose e valorizzare un ambito artistico-professionale che necessariamente possiede regole e metodi tutti suoi. Diversa è invece la posizione di Giuseppe Costa, docente di Sanità Pubblica presso l’Università di Torino, il quale, occupandosi da vicino di epidemiologica, considera a prescindere gli strumenti culturali e sociali i più validi a migliorare quella costruzione sociale che è la salute. Chiude la lunga giornata l’intervento di Claudio Bernardi il quale, con sarcasmo, collocandosi fra i due tavoli dell’istituzione (i docenti) e del mercato (gli operatori), sottolinea la difficoltà implicita di chi si trova nel mezzo dei due tavoli (il cittadino) di farsi sentire e contemporaneamente di comprendere e condividere gli equilibri dei due colossi posti ai suoi lati, con partecipazione e fiducia.

La sfida lanciata da Eugenio Barba, al fine di ricreare quello spazio potenziale dove differenze fra dominato e dominatore si possano, non solo retoricamente, superare, rimane aperta e quanto mai attuale. In particolare se confrontata ai recenti sviluppi storico-politici. La giornata di studio denota l’intenso impegno dell’istituzione universitaria, capace di sporcarsi le mani con le problematiche sociali e di non rifugiarsi, soprattutto in campo artistico, nello sterile accademismo.

“Le Baccanti”. Chi è Dioniso?

Dio è morto. Ma quale Dio? Nietzsche lo ha constatato. Tutto il nostro mondo, la nostra cultura deve fare i conti con questa morte. Noi tutti, figli di Cadmo, lo abbiamo ucciso e la modernità ha preso il sopravvento. Siamo in grado di contrastare la sua rabbia feroce? Il teatro è ancora il luogo dove un dio può prendere vita?

Dopo  Fedra di Seneca, partendo dalla domanda “Chi è Dioniso?”, il regista Andrea De Rosa prosegue la sia indagine sui classici, mettendo in scena un adattamento della tragedia di Euripide, Le baccanti, in data 5 dicembre 2017, al teatro Carignano di Torino. Una produzione Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli e Fondazione Campania dei festival.

Un linguaggio antico che parla alla nostra modernità, alle sue contraddizioni ed incongruenze. Il mondo di Tebe come metafora di una ipotetica metropoli  di un mondo postmoderno, in cui si cerca di alienarsi dal mondo circostante, essere altro da sé.

Dioniso è colui che accompagna verso i confini dell’anima, confini che non si raggiungeranno mai. Spinge gli uomini ad abbandonarsi, a strapparsi di dosso la propria identità, costruita faticosamente. È un Dio portatore di doni: il vino, la droga, la danza, le allucinazioni, ma soprattutto il lenimento del dolore. Esperienze che vivono gli adolescenti. Per questo, Dioniso è un dio adolescente che si rivolge a loro. Gli adolescenti si trovano nella situazione di non sapere chi sono e in questa fase complicata, quel dio porta loro sollievo, unico modo per non sentire il dolore della crescita. Tematica più che attuale.

foto Marco Ghidelli

Dioniso è interpretato da una donna, l’attrice Federica Rosellini,  già assistente alla regia di Luca Ronconi per Panico, attrice di molti spettacoli teatrali tra cui Santa estasi di Antonio Latella, e attrice di cinema premiata a Venezia. Una scelta che si è rivelata giusta. Si ha veramente la sensazione che Dioniso sia in scena. Capelli lunghi biondi che cadono sul seno coperto appena da una velo trasparente, e dei jeans scuri completano questo dio moderno che con la sua voce deve penetrare nelle persone, ammaliarle e comandarle verso l’irrazionalità più sfrenata. La scelta di Dioniso al femminile sottolinea meglio la natura bisessuale di questo dio e l’attrice riesce a condensare insieme la parte più femminea e fanciullesca del dio, con l’altra più violenta e feroce. L’insieme di questi due aspetti aumenta il livello di tensione erotica, che raggiunge il  massimo grado nel rapporto tra Penteo e il dio. Un erotismo con una vena infantile, sì violento, ma anche ferito. Dioniso è un personaggio bestiale solo nella forma più genuina del termine: è stato strappato dal grembo materno e risente di questa mancanza.

Penteo allora è il suo doppio, con le sue ossessioni. Anche lui è privo della madre, Agave, preda di Dioniso, ormai a capo delle baccanti a condurre una vita istintuale e selvaggia. Sicuramente ha qualcosa di represso: tentato e pieno anche lui di Dioniso, vorrà vedere la madre posseduta. Penteo deve morire per aver osato mettersi contro il dio. Così questi  lo punisce, ma non prima di avergli fatto provare l’abbandono dei sensi, l’irrazionalità, l’amore carnale, non prima di avergli fatto sentire chi è Dioniso. A interpretare Penteo è Lino Musella, non benissimo, perché viene accentuata troppo la parte influenzabile,  corruttibile, repressa di un re che non sa fare il re, come se fosse un ingenuo che viene abbindolato dal primo venditore che vede. Manca, o meglio, è un po’ sbrigativa la congiunzione tra quando Penteo è un re che non vuole sottomettersi al dio, e quando invece cade preda di questi. Invece, reso molto bene da Dioniso-Rosellini l’atto di possedere il re, avvicinandosi lentamente e poi arrampicandosi con movimenti ferini sul trono per  trasformarlo.  Penteo in primis è un re di una grande città, Tebe, e per questo deve proteggerla dalla nuova “moda”, dal nuovo culto che si sta diffondendo a causa di Dioniso. Lui sa chi è, al contrario di chi ha perso coscienza di sé, è per questo è saldo, forte e non deve cedere al dio. Tuttavia, verrà  anche lui ammaliato perché Dioniso agirà sul  suo lato più insicuro, rivelando a Penteo il suo bisogno di perdersi. Tale passaggio poteva essere reso con più efficacia. Infatti, solo l’atto finale di questa trasformazione è reso bene, con Penteo che, vestito con abiti da donna,  va verso la morte per la propria curiosità, mentre Dioniso, seduto sul trono di Tebe, osserva il suo prodotto e si prepara a finire la sua vendetta.

foto di Marco Ghidelli

Gli altri personaggi Cadmo e Tiresia, rispettivamente Ruggero Dondi e Marco Cavicchioli, sono due figure grottesche, due furbi. Il primo è pronto a trarre profitto da questo nuovo culto di Dioniso e il secondo è un opportunista. Incitano il popola a perdersi, e danzano mentre si compirà la tragedia. Sono dei finti folli contrapposti ai veri folli, come Penteo o la madre Agave, interpretata da Cristina Donadio. Una madre che uccide il figlio, posseduta dal dio, in una caccia di belve tra belve. Una testa cullata tra mani, trofeo di guerra, protetta e riconosciuta solo dopo il parto. Una madre che partorisce un figlio. Morto. Questo parto è un parto di Dioniso, del dio, un parto morto, una metafora per dimostrare come noi nasciamo già morti, ma anche metafora ribaltata della condizione di un dio che è morto. Un parto non molto chiaro nell’immediato, ma a cui una riflessione successiva contribuisce a dare forza espressiva e semantica. “Agave la si può immaginare come le ragazze madri, o le donne degli anni ’70, dove non c’erano limiti”, ci dice l’attrice Cristina Donadio. Alla fine, Dioniso dirà basta e tornerà al suo mondo selvaggio.I personaggi non hanno un carattere vero e proprio, sono follia, maschere. Dioniso offre a tutti la  possibilità di mascherarsi. Non ci sono caratteri, ma solo corpi. Corpi seminudi, sporchi, insanguinati, vestiti con indumenti trasparenti e color carne altrettanto sporchi, tacchi al posto degli zoccoli: la natura  selvaggia di questi corpi è evidente.

Lo spettacolo inizia con Dioniso che si presenta, mentre dispensa  piacere con  la sua voce ammaliatrice, come se fosse un cantante su un palco di un rave party mentre canta e urla in un escalation sempre più forte, e la sue baccanti ballano, perse, fino a che hanno forza. Dioniso è il marionettista che con la sua voce, il vino, la droga, fa danzare le sue marionette.  In fondo al palco si intravede il rito, l’orgia in onore di Dioniso. Una parete fatta di casse acustiche rimanda la musica  allucinatoria di Dioniso. Un suono di basso continuo che dura per quasi tutto lo spettacolo, interrompendosi solo quando Penteo viene ucciso, ma che poi ricomincia, perché la musica di Dioniso non termina mai. Un suono ossessivo che investe anche lo spettatore e lo fa immergere in quel rito che si sta compiendo sul palcoscenico, fino al punto di non accorgersi più di quella musica. Lo spettacolo è tutto giocato sul ritmo e gli attori recitano in modo antinaturalistico seguendo sempre il tempo  della musica. Così come è  arrivato a Tebe, ora Dioniso se ne va, dopo aver compiuto la sua vendetta contro un re e un popolo che hanno osato sfidare  il dio, peccando di “ubris”. Nulla può fermare Dioniso, perché tutti hanno bisogno di lui.

foto di Marco Ghidelli

Un adattamento ben fatto e non didascalico, in cui emerge con chiarezza il paragone con il nostro mondo. Una tematica attuale: noi siamo tentati da vari rimedi facili per alleviare il nostro dolore e abbiamo bisogno di estraniarci dalla razionalità, dalla realtà che ci circonda per fermare per un attimo un tempo che ha visto la morte di Dio causata da noi stessi. Dioniso è in noi, lo abbiamo reso indispensabile.

Emanuele Biganzoli

 

Autore: Euripide

Adattamento e regia: Andrea De Rosa

Attori: Marco Cavicchioli (Tiresia), Cristina Donadio (Agave), Ruggero Dondi (Cadmo), Lino Musella (Penteo), Matthieu Pastore (Messaggero), Irene Petris (Coro), Federica Rosellini (Dioniso), Emilio Vacca (Messaggero), Carlotta Viscovo (coro), allieve della scuola teatrale del Teatro Stabile di Napoli Maria Luisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei (Coro)

Scene: Simone Mannino

Costumi: Fabio Sonnino

Luci: Pasquale Mari

Musiche originali: G.U.P. Alcaro e Davide Tomat

Produzione: Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli, Fondazione Campania dei Festival

 

Stanze/Qolalka: siamo diversi?

Martedì 20 giugno, in occasione del Festival delle Colline Torinesi, va in scena alle Fonderie Limone lo spettacolo diretto da Massimiliano e Gianluca De Serio Stanze/Qolalka.

Lo ammetto: quando sono entrato in teatro e ho visto due leggii senza alcuna scenografia se non un paio di sedie, un cassone e due teli bianchi ho avuto paura. Temevo di risentire la classica storia sul quanto siamo cattivi e poco accoglienti noi occidentali nei confronti dei fratelli africani in un’accozzaglia di letture e video utili solo all’autocelebrazione di un’idea.

E invece? Invece i Fratelli De Serio hanno dato vitae spazio a storie forti e coinvolgenti raccontate da due immigrati e ora mediatori 

culturali di nome Abdullahi e Suad che, pur non essendo attori, hanno portato in scena ciò che molti grandi professionisti (o presunti tali) italiani non riescono a trasmettere: la verità.

Sì, perché Abdul e Suad sono anche autori dello spettacolo e, per poco più di un’ora, hanno raccontato cosa è realmente la Somalia e di cosa tratta la loro cultura: tra poesia, religione, guerre, morti e un’instabilità politica tristemente nota a molti paesi africani.

La messinscena, come ho già accennato ironicamente, è essenziale: è evidente come in questo spettacolo giochi un ruolo da protagonista l’uso sapiente delle retroproiezioni dei Fratelli De Serio, non a caso – ottimi – registi cinematografici. I teli bianchi sono infatti mobili e vengono spostati dai due attori per creare delle stanze ogni volta differenti, arricchite da immagini, parole e sottotitoli, in un’alternanza di idiomi tra somalo e italiano, i quali finiscono per fondersi in un’unica lingua nella parte iniziale dello spettacolo, in cui le parole italiane vengono simpaticamente ”somalizzate” (ad esempio ”insalata” diviene ”ihynsalatah”) per aiutare il pubblico a prendere confidenza con una lingua, così come una cultura, apparentemente tanto diversa dalla nostra.

La domanda che ci si pone è: siamo veramente tanto diversi? La risposta non è importante, siamo esseri umani entrambi. Ma è innegabile che vi siano delle disuguaglianze tra il popolo italiano e quello somalo: ciò che salta immediatamente agli occhi è l’intensità dell’aspetto religioso. Questo è infatti molto presente nelle vite dei somali che continuamente durante lo spettacolo si rivolgono a Dio.

Inevitabile una riflessione sul testo, seppur buono, della rappresentazione: non c’è stata la volontà di spingersi ancora più in là di quanto si sia fatto per muovere delle accuse e portare delle testimonianze su quello che per la Somalia era ed è un vero e proprio ”cancro” che la divora dall’interno: lo jihadismo. Ho avvertito una necessità di dover mostrare solo il lato buono della cultura somala (cosa peraltro legittima) senza volersi mai addentrare nei fantasmi che hanno costretto centinaia di migliaia di persone a scappare per cercare un posto in cui vivere in sicurezza, lontani dalle bombe e dalla violenza gratuita delle minoranze belligeranti.

Esclusi Suad e Abdullahi, tutti gli attori siedono tra il pubblico e il senso di insieme tra platea e palco è palpabile, vista anche la scelta di luci che potrebbe risultare poco rischiosa ma anche funzionale allo spettacolo: il palco è sempre molto illuminato con un piazzato e, questa scelta, aiuta la distruzione della quarta parete come voluto anche per gli attori, i quali si rivolgono direttamente al pubblico e non recitano: raccontano.

I rimandi e le critiche al fascismo sono moltissimi. Un momento di fortissimo impatto emotivo è stata la stanza (o scena che dir si voglia) in cui si ricorda dei saccheggi e delle violenze perpetuati dagli italiani ai danni del popolo somalo negli anni del colonialismo. Quest’ultima mi è parsa una fondamentale chiave di lettura dello spettacolo: chi siamo noi per giudicare chi fugge da una guerra? Chi siamo noi per ostacolare chi cerca una terra diversa da quella che hanno calpestato per la prima volta? Dov’è finita la nostra umanità? La realtà è che una parte importante del nostro paese è composta da persone egoiste e attente a cercare un capro espiatorio che permetta loro di vivere felice. E’ stata quindi ottima la scelta degli autori e dei fratelli De Serio di sbattere in faccia la realtà a chi era in platea, di dire chiaramente le cose come stanno: ci lamentiamo di chi non ha niente e cerca qualcosa da noi ma, noi, che qualcosa lo avevamo, da loro ci siamo andati comunque. E il nostro aiuto non era richiesto.

Lo spettacolo si divide in tre momenti fortemente emozionanti: il racconto di un ragazzo somalo che, tramite un video, descrive la terrificante violazione dei diritti umani subita in un carcere libico; la testimonianza di una mamma come Suad dell’uso della poesia, la quale è fortemente presente nella cultura somala; il racconto di Abdullahi sul perché ha scelto di mettersi su un barcone e rischiare la vita e su quali sono i passaggi, le esperienze, i rischi concreti di chi sceglie di intraprendere questo pericolosissimo viaggio.

Molto interessante l’uso della tecnologia in tutto lo spettacolo, specialmente se abbinata alla tradizione somala: una volta le poesie (che, come già descritto, sono parte integrante della loro cultura) venivano tramandate oralmente, mentre ora i principali canali di diffusione sono Whatsapp, Viber, Facebook e Youtube. Questi ultimi, come testimonia Abdullahi, sono anche fondamentali nell’aiuto all’integrazione dei nuovi arrivati, i quali possono mettersi in contatto prima della partenza con chi ha già subito il calvario che li aspetta.

Abdullahi, infatti, racconta di come l’occidente sia visto come una terra promessa dai profughi africani ma, per una persona come lui che ce l’ha fatta, altre cento non riescono ad integrarsi e a trovare un motivo per vivere.

La colpa? Questo non ci è dato saperlo. Stanze/Qolalka è una straordinaria fonte di riflessione su quello che vuol dire integrarsi e sul come spiegare una cultura in modo fresco e a tratti brillante, oltre che emotivo e drammatico. L’auspicio è che la ricerca dei fratelli De Serio non si fermi qui e che si porti avanti questo progetto anche su altre culture apparentemente, e forse effettivamente, tanto lontane dalle  nostre.

Luca Vincent Pecora

Turbolenze di emozioni in Raffiche

 

Non capita spesso di sentirsi direttamente trasportati in un presente così sensibilmente vivo, quasi tangibile e assolutamente reale da sentirsi fisicamente in un altro luogo e in un altro tempo.

Tutto è iniziato in medias res al “Le Petit Hotel” di Torino, il pubblico si trovava nella sala d’attesa dell’albergo quando una delle sette gangster, abbracciando un mitra con aria violenta e seducente, compare per invitare una parte dei presenti ad entrare nell’ascensore e, automaticamente, a rendersi partecipe del crimine.

Ci ritroviamo così in una delle camere dello “Splendid’s Hotel”, nome dello stesso testo teatrale di Jeane Genet che ha trovato nella regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò una reinterpretazione originale e accattivante.

I complici vengono fatti accomodare e udendo dalla radio in scena, sempre accesa quasi da essere centrale nella storia, alternando notizie a musiche-colonna sonora, i comunicati stampa che le Raffiche inviano ai giornali-radio, comprendono di trovarsi intrappolati e accerchiati dalla polizia che da tempo cerca di identificare e catturare il gruppo di rivoltose.

Le Raffiche si presentano infatti come un gruppo di creature eleganti di non genere, o di donne in vesti da uomo o forse ancora come uomini in corpi di donne contro gli stereotipi, i divieti e le imposizioni di una società opprimente a cui non ci si deve adeguare mai,a costo di morire. Sono un gruppo di sovversive che ha scelto di non identificarsi in favore della libertà dagli schemi di genere e di ruolo.

Nella stanza è presente il cadavere di una ragazza che le Raffiche hanno precedentemente reso ostaggio e che ora, per temporeggiare, spacciano per viva alla polizia, ma c’è anche una poliziotta (Federica Fracassi) complice del misfatto che smaniosa di avventura, decide di unirsi al gruppo di latitanti.

Si scatena così una vicenda mozzafiato che riesce a rendere permanente nello spettatore uno stato di agitazione, una suspance continua che crea un attenzione tanto forte da essere turbinosa, dove dialoghi taglienti si alternano a momenti di puro erotismo di cui Jean (Silvia Calderoni), capo del gruppo, è elemento scatenante.

La regia Motus (nome della compagnia) riesce, in questa occasione, ad afferrare il tempo per dominarlo attraverso una partitura scenica completamente coreografata, dove anche il silenzio delle attrici ha un suo ritmo particolare e trova sfogo in uno spazio gestuale molto coinvolgente. Ottima è stata anche la scelta delle musiche-colonna sonora, perfette per confermare l’intimità del luogo, e che ben esprimono l’interiorità violenta e seducente delle Raffiche.

Arrivando al finale, Jean sarà fisicamente costretta dalle compagne ad indossare vesti femminili, o meglio a travestirsi, per fingersi l’ostaggio già morto e mostrarsi al pubblico di poliziotti che attendono una nuovo colpo di scena da parte delle sovversive, fuori dall’edificio, in un esterno che noi spettatori non vediamo ma sentiamo interagire con le rivoltose. Jean muore per un colpo di pistola e come se nulla fosse mai successo il suo corpo rimarrà fuori sul balcone mentre Pierrot (Ondina Quadri), personaggio che si occupava della propaganda dei messaggi rivoluzionari attraverso scritte sul proprio corpo, in grave crisi di astinenza da droghe, perde il controllo premendo, pochi minuti dopo, il grilletto della sua pistola per togliersi la vita, avendo ormai tutte perso l’identità di gruppo.

Uno spettacolo davvero emozionante che ha creato una “turbolenza di emozioni” quasi mai scontate per il teatro dei nostri tempi e che non per nulla ha ottenuto il tutto esaurito dopo pochi giorni dall’apertura del “Festival delle Colline Torinesi”, contesto in cui è stato sapientemente inserito.

 

Tante facce nella memoria e le sue vedove “assenti”

Lo spettacolo, andato in scena il 17 gennaio 2017 alle Fonderie Limone di Moncalieri, è una drammaturgia a sei voci. Scenografia di Paola Comencini, disegno e luci di Gianni Staropoli e regia di Francesca Comencini (regista di “Gomorra la serie”). Interpretato dalle bravissime Bianca Nappi, Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta che ne ha curato insieme alla regista i testi.tante-facce-6

Sei storie di donne protagoniste, a vario titolo, dell’eccidio di uomini a loro cari nelle Fosse Ardeatine quando nel 1944, a seguito dell’attentato di Via Rasella, i nazisti coadiuvati dai fascisti si vendicarono con atrocità devastante contro uomini colpevoli di aver difeso il loro onore, amor di patria e libertà. A causa della morte di 33 soldati delle SS furono arrestati e uccisi 335 italiani, l’ordine era “per ogni tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani”.

Una voce fuori campo ci ricorda che non siamo di fronte ad uno sceneggiato né a racconti di fantasia, ma a testimonianze dirette raccolte da Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi della storia orale, che ha ispirato la regista.                                                                       Lo spettacolo, incentrato sulla memoria e sulla necessità di ricordare, mette al centro la figura femminile ricordandoci quante donne coraggiose hanno partecipato attivamente come partigiane o compagne di partigiani. Non c’è ricordo più forte di chi realmente l’ha vissuto, ricordo che con grande abilità le sei attrici hanno incarnato con molta emotività e sensibilità tanto da non distinguere più l’attore dai personaggi realmente esistiti. Sei monologhi carichi di emozioni, ricordi e qualche nostalgico rimpianto.   Le tre donne partigiane (Bianca Nappi, Mia Benedetta e Chiara Tomarelli) rievocano in tono freddo, duro e umile le gesta violente quanto necessarie compiute.  Le donne non partigiane, con le eccellenti interpretazioni di Lunetta Savino,tante-facce-10Carlotta Natoli e Simonetta Solder, invece, raccontano con più pathos quei momenti di intime sofferenze e di privazioni vissute per la mancanza dei loro cari (padri e mariti).

Viene rappresentato un lutto mai veramente rielaborato perché per anni la storia non ha mai riconosciuto e ricordato abbastanza il sacrificio e il supplizio che quegli uomini e indirettamente quelle donne, ora finalmente unite nel ricordo, hanno vissuto per difendere un’ideale nobile e la patria. E’ un lutto strano, un lutto di figlie, madri e vedove assenti. Assenti perché per anni non hanno potuto raccontare, perché emarginate, perché parenti di antifascisti caduti; assenti perché madri sole con figli da accudire. Non avevano avuto neanche il tempo di piangere. Assenti perché non sapevano nulla, avevano visto arrestare i loro cari, avevano immaginato e anche sperato che fossero stati deportati nei campi di concentramento. Invece no, un trafiletto su “Il Messaggero” il giorno seguente diceva: “L’ordine è già stato eseguito”. Non restava che riconoscerei cadaveri quasi irriconoscibili.                                                                                                 Colpisce una scenografia scarna ma d’impatto, essenziale ma non spoglia: in primo piano le sei sedie e in quinta tanti cappotti appesi quante furono le vittime. L’attenzione è tutta focalizzata su quelle sei donne illuminate da una luce lieve. Sono sei voci che come un’orchestra ben diretta diventano un solo afflato di dolore ma anche di fiducia. E quando lo spettacolo, che ha tenuto un silenzio ingombrante in sala, arriva al finale, le sei donne si raccolgono sotto i cappotti come fossero un’unica persona e a chiudere la pièce teatrale viene suonata la canzone Sempre di Gabriella Ferri.  Le attrici sono sensibilmente commosse, quasi consapevoli che non ci sarà mai un altro ruolo che le farà ritornare a essere quelle donne così fragili ma forti, così comuni ma eroiche. A fine spettacolo tutto il pubblico le richiama con applausi svariate volte dalle quinte e le attrici rientrano sempre ringraziando e riapplaudendo a loro volta il pubblico.

Virginia Cappuzzo.

Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”

Per il seminario In Atelier, Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, la sala piccola della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino ospita la performance che corona la lectio mattutina Tra voce e infanzia tenuta da Chiara Guidi presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale. Il contesto raccolto e intimo Continua la lettura di Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”