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IL RISVEGLIO – COMPAGNIA PIPPO DELBONO

Al teatro Astra è andato in scena, tra qualche contestazione, lo spettacolo Il risveglio di e con Pippo Delbono e la sua Compagnia.

L’attore comincia parlando di sé, di alcuni momenti della sua vita e della sua giovinezza.

Racconta di un amore che l’ha provato nella salute del corpo e della mente, tracciando un percorso che introduce il pubblico allo spettacolo vero e proprio.

In teatro, tra la musica del violoncello suonato da Giovanni Ricciardi, e le parole di Pippo Delbono, si assiste quasi ad un rito funebre, certamente ad un atto commemorativo.

Bobò, membro della Compagnia, non c’è più.

Vengono ricordati i suoi gesti, la sua voce, il suo modo di relazionarsi con gli altri, con i grandi artisti ed i compagni. Il conforto dato dalla sua presenza.

La musica, in parte proposta in video, in parte suonata dal vivo, accompagna l’attore nella sua narrazione del dolore e della perdita. Lo spettacolo rivela le fragilità del personaggio, le sue paure.

E così la paura si intreccia al ricordo di chi non c’è più. La mancanza dell’altro crea incertezza, è quasi come dover imparare nuovamente a vivere. Si fa strada nella mente la consapevolezza che, nel procedere, nulla sarà più come prima.

Al tema della perdita, oltre a quello dell’amore e della paura, si intreccia quello della guerra come distruzione e incombenza della morte. In questo la scrittura, in particolare sotto forma di lettera, permette il tramandarsi di memorie pregne di dolore e rassegnazione ma, in fondo, anche di speranza e desiderio di cambiamento.

Sulla scena vengono proposti due possibili finali. Dei due, il secondo, forse supportato da quel potere di coinvolgere che ha la musica, ha fatto sì che, anche i più scettici, si sciogliessero in un fragoroso applauso.

Lo spettacolo, che chiude il Festival delle colline torinesi e inaugura la stagione del TPE Teatro Astra, ha generato molto fermento tra il pubblico. Qualcuno, durante la recita, ha dichiarato di pretendere il rimborso del biglietto e, al momento degli applausi, ha fischiato, mostrando tutto il suo disprezzo.

Delbono, vedendo lo spettatore agitarsi sulla poltrona, gli ha risposto con il tipico gesto italiano della mano a carciofo.

Non sono mancate, al termine della recita, anche all’esterno del teatro, altre polemiche e confronti accesi tra gli spettatori.

Il teatro, troppo spesso relegato a luogo del silenzio e del mistero, si è riempito di suoni: voci sovrapposte, gesti caotici, passi affrettati. Idee.

Silvia Picerni

Uno spettacolo di: Pippo Delbono

Con: la Compagnia Pippo DelbonoDolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella

E con: Giovanni Ricciardi (violoncello e arrangiamenti)

Luci: Orlando Bolognesi

Costumi: Elena Giampaoli

Suono: Pietro Tirella

Capo macchinista: Enrico Zucchelli

Organizzazione: Davide Martini

Assistente di produzione: Riccardo Porfido

Direttore tecnico: Orlando Bolognesi

Personale tecnico in tournée: Manuela Alabastro (suono), Carola Tesolin (costumi), Corrado Mura (luci), Enrico Zucchelli (scena)

Produttore esecutivo: Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

Coproduttori: Teatro Stabile di Bolzano (Italia), Teatro Metastasio di Prato (Italia), Théâtre de Liège (Belgio), Sibiu International Theatre Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu (Romania), Teatrul Național “Mihai Eminescu” Timisoara (Romania), Istituto Italiano di Cultura di Bucarest (Romania), TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi (Italia), Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille (Francia)

In collaborazione con: Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento (Italia), Le Manège Maubeuge – Scène Nationale (Francia)

SALOMÈ – madalena reversa

La percezione dell’estasi

Ah! I have kissed thy mouth, Jokanaan, I have kissed thy mouth. There was a bitter taste on thy lips. Was it the taste of blood?… But perchance it is the taste of love….

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La compagnia madalena reversa torna al Festival delle Colline dopo il suo precedente lavoro Manfred del 2022.

No, non c’è nessun errore, il nome della compagnia è proprio in minuscolo, il motivo lo svelerò dopo; madalena reversa è un progetto artistico, creato da Maria Alterno e Richard Pareschi nel 2016, che fonde performing, visual arts e danza multimediale.

Dopo il teatro, la musica, l’opera e il cinema non poteva mancare la Salomè sotto aspetto rappresentativo di transmedia wave. Qui viene coreografata e interpretata da una bravissima Gloria Dorliguzzo.

Veniamo accolti da una nebbia che accompagna tutto lo spettacolo come un respiro sospeso nell’aria. Appare uno schermo che interagisce con noi, mostrandoci una frase dell’opera di Oscar Wilde: “Non ci sono Dèi adesso. Ho passato notti, cercandoli dappertutto. Non li ho trovati, Li ho chiamati, Non sono apparsi. Penso che siano morti.” Silenzio, poi a lenti e agognati passi, accompagnata da una musica tetra, entra Salomè. 

La musica o per meglio dire i suoni che pervadono la performance la fanno sentire un essere antropizzato dal malessere percepito come una condizione di fragilità umana. Le luci stroboscopiche e psichedeliche dialogano e danzano con la musica, s’intervallano alla forza del suono emettendo spasmi e sputando scie chimiche voltaiche.

Ha un significato profondo questa Salomè sia come drammaturgia musicale che come drammaturgia della danza, essendo l’opera teatrale già di per sé un dramma scritto nel periodo post-romantico di fine Ottocento. 

Siamo attratti da una performance fisica di danza non-danza, da un’interpretazione coreografica che, prendendo spunto dalle ultime pagine del testo, traduce le parole in movimenti coreutici, formando una drammaturgia del movimento all’interno di un discorso concentrato sulle azioni del solo corpo.

Il timing dei gesti di Salomè ci trasporta in un mondo onirico, tetro, illuminato solo da fievoli luci giallastre, rossastre, bluastre. I passi sono sintonizzati con le tonalità della musica e appaiono appesantiti da una forma epilettica che parte dai piedi fino ad arrivare allo stomaco. L’interpretazione del corpo e del movimento rimandano all’ansia del vivere contemporaneo.

Avvolta in una felpa nera, bermuda neri e stivaletti neri, questa Salomè non ci fa quasi mai vedere il viso, lo nasconde, come quando inarca il busto verso l’alto fino a farsi “tagliare” la testa e rimanere sospesa per pochi secondi: pura azione emozionante che sintetizza l’intera performance.

Ed eccolo il profeta, rappresentato come “Monolite Jokanaan”, causa di desiderio e di morte per Salomè. Egli urla, grida, maledice tutti emettendo suoni che irrompono nella sala come lampi diegetici. Salomè è attratta da lui ma viene respinta e qui inizia il climax tra di loro; tra una cambio stroboscopico e l’altro lei indossa una specie di museruola formata da una mezza protesi inferiore a mandibola argentata. Ed eccola danzare attorno ad lui, inteso come oggetto del desiderio. Lo vuole tutto per sé, si arriva ad un amplesso con lei che si butta ai suoi piedi, divarica le gambe, si spoglia dalla felpa per rimanere in una t-shirt grigio topo, luci e suoni la trasportano impazzendo tra loro e poi…poi buio di nuovo fino al momento dell’inizio della forza tragica. Una sorta di “danza dei sette veli” psicotica che culmina con la dura forza nell’uccisione di lui.

Posseduta e dilaniata dai sensi di colpa, Salomè irrompe con una mazza da baseball mentre sul finale una luce bianca accecante punta dritto sul pubblico.

Si arriva alla forza degli ultimi gesti, prima della catastrofe, ovvero avvicinarsi al “Monolite Jokanaan” per spogliarlo con ferocia dei veli e portarseli addosso come un senso di liberazione dagli atti impuri. Salomè si arrotola nella grande veste nera che avvolgeva lui. Sa che anche lei morirà e per questo vuole possederlo anche quando diventeranno un tutt’uno.

Lo schermo si riaccende, facendoci leggere che non esistono dèi e che tutto viene percepito dall’ invisibilità della forma.

BREVE INTERVISTA a Richard Pareschi

L.R: “perché madalena reversa e perché in corsivo?”

R.P: “semplice, perché viene confuso con un nome e cognome che esiste già quindi abbiamo pensato di scriverlo in corsivo, altro motivo viene riferito durante il Seicento alla Madalena in Estasi, proprio alla posizione del capo cioè reversa, ed era un’opera del Caravaggio che è stata ritrovata nel 2014 da Mina Gregorio, una delle più importante esperte sulle opere di Caravaggio nonché storica dell’arte italiana. Quindi il nome della nostra compagnia si lega alla percezione dell’estasi come nostra ricerca, legata alle teoria della filosofia contemporanea tedesca su una nuova visione di estetica, e tutta la nostra ricerca si basa sulla percezione, un oggetto che esce fuori da sé stesso oltre la sua reale funzione.”

L.R: “correggimi se sbaglio, ma il vostro Jokanaan lo rappresentate come un monolite, ispirandovi a “2001 a Space Odyssey” o sbaglio ?”

R.P: “beh, rappresenta il concetto di sacro, d’invisibile; è vero rappresenta il monolite da 2001, come invisibile che non si può toccare come il sacro è,  nella religione ebraica il velo (Kippà) dietro il “paroakeet” del tempio viene rubato da Erode. In tutta l’opera di Wilde tutti si chiedono che fine a fatto il velo, alla fine Erode ammette che è stato lui a rubarlo e quindi Salomè in qualche modo cerca sempre di toccare l’invisibile.”

L.R: “il metodo grotowskiano c’è nella performance di Gloria Dorliguzzo, o no?”

R.P: “no, cioè sotto il nostro punto di vista, dialogando con lei prima d’iniziare questo percorso, non siamo partiti da Grotowski, anche se dai nostri studi accademici c’è un allineamento ma è esterno. Dopodiché la struttura coreografica dei movimenti è proprio di Gloria, noi abbiamo tracciato un percorso anche con il nostro compositore delle musiche originale Donato Di Trapani, abbiamo elaborato una drammaturgia musicale come punto di partenza dei nostri lavori che poi diventa veramente un monolite, un punto intoccabile e Gloria su questo ha voluto fare una ricerca di qualità dei movimenti, dopo di che come coreografa della pièce… quindi ti dico un ni da parte nostra, mentre per lei, non avendo una formazione teatrale accademica tradizionale, non ci ha fatto sapere se conosce questo metodo grotowskiano, ma chi lo sa, forse…”

Luigi Rinaldi

Dall’opera di Oscar Wilde

ideazione e regia Maria Alterno e Richard Pareschi

composizione coreografica e interpretazione Gloria Dorliguzzo

musiche originali Donato Di Trapani

disegno luci Andrea Sanson

direzione tecnica e fonica Francesco Vitaliti

mandibola Plastikart Studio di Zimmermann & Amoroso

progetto grafico Federico Lupo

produzione madalena reversa in collaborazione con Motus VAGUE coproduzione FOG Triennale Milano Performing Arts, TPE – Festival delle Colline Torinesi

con il sostegno di C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche / ZUT!, Anagoor

LA LUZ DE UN LAGO – EL CONDE DE TORREFIEL


Presentato con Piemonte dal Vivo in condivisione con Torinodanza

Il 12 e 13 ottobre 2023 lo spettacolo LA LUZ DE UN LAGO della compagnia catalana EL CONDE DE TORREFIEL è andato in scena presso il Teatro Astra, in occasione della 29esima edizione del Festival delle Colline Torinesi.

El Conde De Torrefiel è una compagnia fondata a Barcellona nel 2010 da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert. Il loro lavoro si articola attraverso varie collage di performance metafisiche tra video, pittura, suoni, luci.

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Dopo il precedente lavoro Imagen interior questo spettacolo concentra il progetto come essenza minimalista artefice di una visione narrativa concentrata sui sensi dello spettatore. 

El Conde si rifugia in una sala cinematografica. “Questo è un film” dice la voce fuori campo all’inizio del pezzo, di fronte a uno spazio vuoto scenografato da diversi pannelli bianchi che serviranno per proiettare le storie. 

La musica, i suoni, le immagini in distorsione e le didascalie fanno da catena alla piece multimediale, un esperimento sonico e visivo all’interno di un programma multidisciplinare che tocca i sensi dell’essere umano.

Si passa dalla musica underground Atrocity Exhibition dei Joy Division degli anni ’80, ad Angels dei Massime Attack per finire al Vendredì di Flavier Berger del 2015. Questo è il lasso di tempo musicale: l’educazione tragico sentimentale di diverse generazioni temporali sfocia poi con un action shit painting.

Da lì nasce la storia di due ragazzi di 23 anni a Manchester nel 1995, che dopo un concerto dei Massive Attack (Angel fa da colonna sonora alla prima storia) decidono di andare al tempio della musica del momento, il mitico New Osborne. Lì, quei giovani scopriranno il suono tecno del loro tempo. Cito da un’intervista fatta al El Conde dal giornalista Pablo Caruana Húder e pubblicata su un periodico spagnolo:

“Una musica semplice, costante e ripetitiva, senza variazioni, senza complessità. Musica che non ha testi, musica che non ti dice nulla, musica che non intellettualizza, musica che non ti inganna, musica che ti penetra e soprattutto musica con volume. Un colpo grave, ritmico, continuo che ricorda la semplicità del tempo e allo stesso tempo la complessità del tempo”. E ancora: “Una marea di persone agita i loro corpi allo stesso ritmo. Invocano la complessità del tempo e ballano volendo scomparire…” Una storia di amore, corpi e LSD. Questa prima storia ci parla di quel passato in cui una generazione si è aperta al mondo quando Margaret Thatcher disse “La società non esiste, esistono solo gli individui…” I testi e la voce femminile che narra la storia procedono a ritmo diegetico.

Da lì, verranno altre storie che proseguono sulla sottile linea tra finzione e realtà. Nella seconda un impiegato di banca che, in un cinema sperduto in una Atene d’inizio crisi del 2006, vede un film sulla gioventù anni’80 incontra ripetutamente un tizio più giovane di lui: il tutto viene commentato da una voce narrante over. Questa gay story potrebbe omaggiare il cinema di Fassbinder con un finale ardente. Nella terza storia troviamo una biologa marina trans che tornando a casa legge una lettera lasciatagli dalla nonna morta, che si conclude con “Non aver paura”. Le didascalie ci accompagnano mentre un performer con gesti lenti tinge di nero due pareti bianche, come se ci volesse dire che l’inclusività non esiste.

Infine la quarta storia, ambientata nel futuro, esattamente nel 2036 a Venezia, al teatro della Fenice, dove in mezzo ad un dramma dai contenuti social environmental, irrompono in scena degli eco-attivisti smerdando gli spettatori in sala. Una storia che è anche un epilogo di riflessione meta-artistica, nel solco dei Friday for Future.

Non c’è trucco non c’è inganno, non esiste nessuna quarta, quinta , sesta parete tra le storie. Esistono solo pochi grandi pannelli che intrattengono il pubblico; le quattro storie si aprono e chiudono con l’aiuto dei tre attori in scena che svolgono con lentezza i movimenti dei cambi scena, sotto gli occhi degli spettatori, muovendo i pannelli fino ad arrivare ad un finale simile ad una installazione da happening d’arte concettuale.

Le didascalie, veri e propri testi, sono asciutti e vanno a ritmo seguendo una narrazione che non è parlata, non ci sono mai dialoghi: “I personaggi che non hanno immagine e sono solo parole sono come gocce d’acqua attraversate dalla luce che le fa brillare per un istante e poi le riporta alle profondità dell’anonimato” come lo sono i tre attori sul palco. Non succede nulla in scena e allo stesso tempo tutto accade. Non è teatro in senso classico, è un modo di rappresentare il disagio di un universo giovanile e il pubblico s’interroga se vale la pena di soccombere o combattere per una società consona ai nostri ideali. 

El Conde ha voluto che fosse il pubblico a sviluppare il film durante lo spettacolo, per essere trasportato in un virtuale “Luz de Un Lago”. Sarebbe stato interessante, da un punto di vista soggettivo, dare forse più enfasi ai quattro episodi con maggiori sottolineature musicali. La fine è come uscire dalla sala cinematografica perché la Compagnia annulla il rito di  ringraziamento con gli spettatori.

Luigi Rinaldi

  • regia e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
  • scenografia La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel
  • performer Mireia Donat Melús, Mauro Molina, Isaac Torres
  • sculture Mireia Donat Melús
  • coordinazione e direzione tecnica Isaac Torres
  • suonoRebecca Praga, Uriel ireland
  • luci Manoly Rubio García
  • video Carlos Pardo, María Antón Cabot
  • distribuzione e produzione Alessandra Simeoni
  • una produzione CIELO DRIVE – Alessandra Simeoni
  • con il supporto di ICEC – Generalitat de Catalunya, Festival TNT, Terrassa Teatre Principal de Lloret de Mar
  • coproduzione Festival GREC – Barcelona, CC Conde Duque – Madrid, Théâtre St. Gervais – Genève, Teatro Municipal de Porto – Rivoli, Festival d’Automne – Paris, Festival delle Colline Torinesi, Teatro Metastasio di Prato, VIERNULVIER – Gent

Fantasmi. La Stagione 2024-2025 di Teatro Piemonte Europa

Da qualunque angolazione lo si accosti, il teatro si fa gioco della sua etimologia. La parola teatro deriva dal greco ϑέατρον, ovvero gli edifici in cui fare teatro, che a sua volta nasce dal verbo ϑεάομαι: guardare essere spettatore. Eppure basta frequentarlo, studiarlo anche poco, per rendersi conto che la vista non è la chiave giusta per penetrarvi. 
Bisogna, anzi, allenare i sensi all’invisibile. Si potrebbe dire che il teatro è luogo dove si pratica una prossimità con i fantasmi. Una caccia continua allo spettro.
Questa è la strada che ci invita a percorrere Andrea De Rosa, direttore artistico del TPE, che presenta alla stampa la prossima stagione teatrale, l’ultima di un triennio incentrato sul macrotema della verità.

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29 Festival delle Colline Torinesi- Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla

<< Dì la verità ma dilla obliqua>> così si apre la presentazione del 16 maggio del  Festival delle Colline Torinesi, giunto alla sua 29 edizione, con una mostra alla Fondazione Merz, dal riflesso apollineo, una pala sacra situata in un luogo che sembra essere una chiesa, panchine vuote, candele bruciate ormai spente e dentro la pala lapidi distrutte, epigrafi con nomi, volti e foto differenti. Luci e ombre nuovamente si incontrano e si scontrano per restituire una visione, quanto più realistica e profonda del mondo di oggi. Numerosi gli ospiti invitati all’evento, quali la stessa Beatrice Merz presidentessa della Fondazione omonima che da anni collabora con il Festival delle Colline, Matteo Negrin direttore della Fondazione Piemonte dal Vivo, Filippo Fonsatti direttore del Teatro Stabile di Torino e ancora Andrea De Rosa direttore artistico del Teatro Astra e ultima ma non per importanza Grazia Paganelli responsabile Area Cinema Museo Nazionale del Cinema e così tante altre figure in rappresentanza del Ministero della Cultura, della Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT e Circolo dei Lettori, Teatro DAMS, Mediateca Rai e altro ancora. La collaborazione sembra essere quindi la parola chiave del Festival delle Colline, nato nel 1996 da un’idea di Sergio Ariotti, direttore artistico del Festival e Isabella Lagattolla, direttore amministrativo. Coppia nel lavoro e nella vita, la loro sintonia è palpabile in ogni stagione, la visione contemporanea e attuale che vogliono trasmettere è fuori dagli schemi, un nuovo modo di portare il teatro nel mondo torinese e non solo. Confini e sconfinamenti è il tema di quest’anno, riproposto pensando al successo dell’anno precedente e rafforzato dalle quotidiane dinamiche odierne, che ci rendono spettatori di guerre, dolori, sofferenze e tanta dispersione. I confini sono quelli del tempo, delle nazioni, delle proprie radici ma anche quelli della memoria e dei ricordi. La 29 edizione abbraccia senza timore il passato, il presente ed il futuro rappresentandolo in ben 52 recite in 28 giorni. Una full immersion colma di significato, storie ed identità alla quale, sono sicura non mancherà l’effetto sorpresa. Numerosi sono gli eventi connessi alla programmazione teatrale che come un grappolo d’uva, accoglie i propri spettacoli in numerose sedi differenti tra cui la Fondazione Merz, il Teatro Astra, Lavanderia a Vapore e le Fonderie Limone. Partecipare al Festival delle Colline come spettatore permette di viaggiare per il mondo stando seduti su una poltrona. Un festival internazionale con la missione di far incontrare le diverse culture, di farle intrecciare, di creare una nuova e più positiva, consapevole e profonda visione del Diverso. Il pubblico è un nuovo cittadino, un cosmopolita teatrale. Non ci resta quindi che la trepidante attesa del 12 ottobre per immergerci completamente nella proposta artistica di Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla.

Rossella Cutaia

Cassandra- il potere

Avete mai provato a far dei passi all’interno di una mente umana? No? Ebbene, al Teatro Astra con Cassandra è possibile farlo.

Dietro le quinte sono allestite le tribune, le nostre tribune, quelle del popolo troiano. Il pubblico diventa parte integrante dello spettacolo e della sua scenografia, luci e suoni ci portano in un ambiente onirico, attraversato da voci flebili ed emozioni strazianti. Due porte, il rituale della soglia è iniziato, aspettiamo la nostra principessa troiana, Cassandra. La sua ombra appare tutto d’un tratto, quasi impercettibile nel buio più cupo nel quale agisce; poi una luce, parla, stravolta e travolta dalla rabbia, legata ad un passato di tormento, incarnato perfettamente nelle corde elastiche che fisicamente la trattengono. Un’ingiustizia, quella perpetrata dal potere che tutto porta con sé e rade al suolo, lasciandosi alle spalle solo macerie dello stesso peso dei ricordi, quando essi divengono macigni, su un cuore che ha lottato troppo a lungo. Lo spettacolo appare di una struttura solida, visibile e percettibile lì dove la vista non arriva: ogni scelta, dalla scenografia ai suoni e alle luci, risulta minuziosa e precisa. L’impressione è che ogni cosa sia esattamente come dovrebbe essere, la percezione è che ogni cosa sia al posto giusto. Luci rosse, l’inferno, un incontrollato super-io, quello di Cassandra, che prende il sopravvento, che agisce senza chiedere il permesso. Un velo rosso, pietoso, che dalla sua anima si estende fino alle tribune, rendendo noi pubblico, ormai diventato solo un’ombra, la perfetta incarnazione di un popolo fantasma. Luci bianche, la principessa troiana torna al suo antico splendore, rendendo limpide, agli occhi dei troiani, le cicatrici di cui è coperta la sua più puerile e pura coscienza, segnata per sempre da profondissime ferite. Luci blu, sfondo della consapevolezza, un sentimento maturo di chi accetta il dolore senza mai smettere di combatterlo, l’arma è la memoria, una memoria eterna come Troia. Riecheggia, ad un certo punto, l’eco di un sussurro, un mito antico, quello di Eco, ninfa punita da Era, un’altra donna condannata per aver scelto in virtù di sé stessa che ora presta la sua voce a Cassandra, rendendo la sua condanna un potere. Potente è il contrasto tra i ricordi, le emozioni, la coscienza, un percorso che esplora e racconta la vita anche di altre donne, il quale destino non è stato determinato da loro stesse ma da altri sopra di loro, quali Elena di Troia, Polissene e così implicitamente anche altre. Un monologo, quello di Cecilia Lupoli, durato 60 minuti, che narra però di una vita intera, di più vite anzi, di un loop di ingiustizie dove la vera condanna è l’essere impotenti. La dizione è perfetta, la potenza vocale è penetrante, la forza e la fatica fisica richiesta dalla performance esprimono perfettamente e coerentemente la forza e la fatica di una morale di giustizia  che vuole affermarsi. Qual è il vero potere? Scegliere, decidere tra un si e un no, prendere una posizione e difenderla fino alla fine  << Il mio ruolo è dire NO>> , così trova la pace Cassandra e liberandosi di ciò che la trattiene, attraversa la seconda soglia in una bianca e splendente luce divina.

Rossella Cutaia

Crediti

di Christa Wolf

regia Carlo Cerciello

scene Andrea Iacopino

costumi Anna Verde

musiche Paolo Coletta

luci Cesare Accetta

consulenza movimenti Dario La Ferla

trucco Vincenzo Cucchiara

acconciatura Team Leo

aiuto regia Aniello Maraldo

foto di scena Guglielmo Verrienti

assistente alla regia Mariachiara Falcone

produzione Teatro Elicantropo, Elledieffe, TPE- Teatro Piemonte Europa

Edipo Re- Andrea De Rosa

“Abbracciare l’irrazionalità, più che altro l’ignoto, l’unico rapporto che può avvicinarci agli dei è la follia”

Platone

Un’impronta rimane sul vetro, come nell’anima, come sul cuore, senza far respirare i tessuti, nella smania di imparare l’arte di vedere le cose nascoste, soffochiamo ogni battito di sincera verità. 

Pannelli di plexiglass, pannelli dorati, fari antichi che proiettano una luce calda, quasi rovente. La scenografia di Daniele Spanò è metallica, direi trasmetta un  richiamo spaziale, simbolo di un lungo viaggio che si consuma durante il suo stesso percorso. Edipo, interpretato da Marco Foschi è come una navicella che arrivata troppo vicina al sole, brucia e si dissolve. Tiresia, portatore di profezie, colui che intimorisce l’animo umano e ne svela ogni fragilità. Cosa si è disposti a fare per non imbattersi nel proprio destino? Per mutarlo e cambiarlo a nostro piacimento?  Tiresia è interpretato da Roberto Latini, che incarna anche Apollo, un Apollo rivisitato, un Apollo rock. Personaggi sapientemente inseriti nella drammaturgia dal regista, nonché direttore artistico del Teatro Astra, Andrea De Rosa. Apollo, dio obliquo, dio della luce, colui che funge da guida appellandosi alla ragione, senno che il cuore rifiuta, rendendo cechi gli occhi di qualunque essere umano, la cui forza, è inevitabilmente sottratta dalla verità. Aletheia è la parola chiave, una verità fatta di reminiscenze che attende solo di uscire allo scoperto, come una nascita. Edipo Re indaga e svela la tragedia della verità, attraverso i legami, materni e fraterni nonché amorosi ma anche attraverso il significato del potere di cui Creonte mette a nudo l’essenza. Uno spettacolo che mette in mostra il fato, un destino ineluttabile che l’uomo incontra specialmente quando cerca di sfuggirgli.  La voce è la protagonista indiscussa della pièce teatrale, le corde vocali del coro composto da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica vibrano forti e decise, voci dotate di un’amplificazione divina, i lamenti del coro appaiono indecifrabili, sono forse gemiti o grida? Sono strazianti urla di nascita o di vita sottratta? Domande a cui lo spettatore è chiamato a rispondere, collocando i suoni che sente in base alla propria interpretazione del dolore, della disperazione e della paura, sentimenti noti a tutta l’umanità seppur in modo differente per ognuno. Una sedia, rosso sangue è posta in primo piano, Edipo si mostra raramente in volto, le spalle sono ciò che lo spettatore vede per la maggior parte del tempo, anche noi siamo Edipo, anche noi siamo chiamati a vedere la verità con lui. Giocasta, interpretata da Frédérique Loliée, è un personaggio che seppur principale, risulta talvolta messo in secondo piano come ogni madre, inconsapevolmente, fa col proprio figlio: confessioni e rimpianti si slegano come nodi di uno stesso filo, ingarbugliato nel gomitolo della verità. La peste, antenata del Covid, viene richiamata come punizione divina all’ingiustizia, condannati, noi esseri umani ad una fragilità che non possiamo contrastare se non accettandola. Distanza, rabbia, paura e solitudine, le questioni irrisolte della vita ritornano indietro, come un boomerang, nella disperata ricerca della pace. 

Parlando con i protagonisti

Andrea De Rosa, Regista

Edipo e Giocasta, madre e figlio , marito e moglie per patto politico, un rapporto di condivisione e non di seduzione, nulla avviene per caso è Apollo a disegnare questo percorso ma chi è Apollo? Apollo è un personaggio che io ho inventato, come Tiresio, poichè per me è sempre esistito, è colui che porta la luce e che pone la verità in obliquo, così che non possa accecare. Edipo Re è lo spettacolo su cui è stata costruita l’intera stagione “Cecità”, non vedere non è solo un limite, talvolta è anche un vantaggio. Con questo spettacolo in particolare abbiamo indagato sul concetto odierno di verità comparandolo al concetto di verità per i Greci.

 E’ Edipo Re un’opera fatalista? 

Apollo lascia le scelte, sono gli stessi uomini a decidere quali prendere, decretando così il proprio destino. 

Qual è il significato dei pannelli in scena?

L’idea dei pannelli è nata nel lockdown,  quando arrivano questi eventi a cambiare il corso della storia, ci si chiede il perché ed è la stessa domanda a cui Edipo Re si sottopone con l’arrivo della peste a Tebe. 

A quale parte di voi stessi avete rinunciato per interpretare al meglio i vostri personaggi? 

Fabio Pasquini, Creonte

Più che rinunciare a qualcosa, l’abbiamo aggiunta, io personalmente ho portato con me la paura, il risentimento, la stessa sensazione di impotenza, mettiamo tanto di noi nella complessità dei personaggi.

Qual è stato il vostro rapporto con questa tragedia?

Frédérique Loliée, Giocasta 

Per me il rapporto con la tragedia greca di Andrea De Rosa è stato scioccante, indagare la verità è stato folgorante. La tragedia è per me il primo stupore, ciò che ti lascia attonito.

Quale è l’importanza della voce , interagendo in un Edipo archetipico e atipico? 

Francesca Della Monica, Coro

Ogni spettacolo dovrebbe essere un concerto di voci, liberare la voce dalla sua identrofia espressiva permette di lavorare sul binomio mutos/vogos e così abbracciare la voce e la parola. Un connubio perfetto tra verbale ed extraverbale, tra voce della storia e voce del muto. 

Rossella Cutaia

MARCO CORSUCCI – LE MIE PAROLE VEDRANNO PER ME

Uno sguardo interno e amplificato

Nell’ambito della stagione 2023/24 del TPE Teatro Astra è stato presentato un lavoro di ricerca sullo sguardo in relazione alla cecità, tematica che attraversa i 25 spettacoli selezionati per questa stagione.

Le mie parole vedranno per me nasce dalla proposta di Andrea De Rosa, direttore del TPE, a Marco Corsucci e Andrea Dante Bernazzo, giovani talenti del teatro contemporaneo, di indagare il tema della cecità attraverso la loro attenzione verso la percezione visiva e il ruolo delle immagini, già intrapresa nei precedenti lavori.

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