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VOGLIAMO TUTTO!

Il personale è politico”. E’ uno slogan usato dalle donne negli anni ’70 ad aprire lo spettacolo.
Le parole, lettera per lettera, vengono proiettate su un grande schermo come se fossero scritte con una bomboletta sul muro. Sin da subito un messaggio ci arriva forte e chiaro: quelle parole stanno a significare quanto cose personali come maternità, lavoro e famiglia dipendessero (e talvolta, dipendano tutt’ora) da decisioni politiche.
Agata Tomsic della compagnia “EROSANTEROS” si presenta a noi in maniera inusuale. Di spalle al pubblico, seduta su un piccolo sgabello, si rivolge ad un telefonino appoggiato su un cavalletto ed il suo volto viene proiettato sullo schermo. Un linguaggio espressivo che punta a stimolare l’immaginazione, l’arma migliore per trasformare il reale.

Scenografia assente ad eccezione di qualche oggetto e dello schermo, sul quale al volto dell’attrice si alternano immagini, video e scritte. Sono proprio le proiezioni ed il monologo della protagonista a costituire il filo conduttore dello spettacolo: le parole  scandite e taglienti, dal ritmo incalzante e le immagini che vengono incessantemente riprodotte ci trasportano all’interno del racconto in maniera quasi inevitabile. L’attrice è sola sul palco, recita in penombra. Non ci racconta una vera e propria storia, con una trama ed un finale: il suo è più un vortice di parole che tocca svariati argomenti: le lotte studentesche, gli scioperi operai, la condizione della donna. Il suo è un attacco diretto al pubblico, quasi un flusso di coscienza.

E’ il 1968: scongiurata l’ipotesi di una terza guerra mondiale, in quella che sembrerebbe un’apparente serenità, si sviluppa il germe della ribellione. La scintilla che accende la miccia proviene dagli universitari, che a Torino scocca con l’ondata di occupazioni delle facoltà a partire da Palazzo Campana. Ed è proprio sulle vicende accadute a Torino che si concentra la narrazione. La rappresentazione si apre con le testimonianze, pronunciate dall’attrice, dei protagonisti del ’68 e dei giovani attivi nel movimenti di oggi. La protagonista prosegue interpretando una giovane militante impegnata nelle proteste e nelle contestazioni del 1968: ci racconta dei duri interventi della polizia mirati alla soppressione delle manifestazioni, del fermento collettivo per una vita nuova.

Sullo schermo però, scorrono immagini attuali: i cortei contro la riforma Gelmini, i video dei manichini incendiati di Di Maio e Salvini, le proteste contro l’abolizione della legge 194.
Lo spettacolo scorre pertanto su due binari paralleli, che talvolta si incontrano mettendo in risalto analogie e discrepanze di due momenti storici differenti. ‘‘La lotta di classe, quando la fanno i signori, diventa signorile”, dice la Tomsic. Ci parla della Fiat e del sogno di migliaia di lavoratori partiti dal sud per costruirsi una vita migliore. Le sue parole ancora una volta calano taglienti come una ghigliottina: parla di “ lagherizzazione” e di riduzione degli operai ad automi, frantumando il sogno. E’ il momento degli scioperi degli operai per la riduzione dell’orario di lavoro e, successivamente, della nascita del femminismo. La donna non deve più essere arredo, “è molto più di una semplice legge sull’aborto”, afferma.

Riceviamo continui input e continue informazioni, apparentemente caotiche, che ci invitano a pensare che il fenomeno socioculturale del ’68 possa essere attuale, adesso come allora.

Un’ultima frase, con una struttura circolare, conclude lo spettacolo.
Forse, a voler contenere quel disordine di eventi che ancora oggi caratterizza la nostra vita: “Non è che l’inizio, la lotta continua”.

 

di Ilaria Stigliano

 

AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO

Gli attori ci aspettano posizionati in scena, guardandoci dritto negli occhi, aspettando di poter iniziare a raccontarci la loro storia.

In scena la ricostruzione di un ambiente casalingo semplice, una piccola cucina, al tavolo della quale sta seduta Margherita Cagol, e una scrivania da studio con accanto una poltrona, dove siede il padre della giovane. In un angolo un televisore d’epoca, che starà accesso per tutto lo spettacolo, trasmettendo immagini di cronaca dell’Italia tra gli anni ’60 e ’70.

Ci sentiamo in effetti catapultati proprio in quell’epoca, un po’ per i vestiti, un po’ per l’arredamento, ma soprattutto per le conversazioni che ascolteremo tra il padre e la giovane Margherita. Si respira un’aria di speranza rivoluzionaria, che lentamente, durante lo spettacolo, si appesantisce, quasi presagendo i duri Anni di Piombo.

Attraverso le lunghe chiacchierate tra padre e figlia vediamo rappresentato lo scontro di due generazioni, che bene si esplicherà durante la stagione di protesta politica e ideale che colorerà l’Italia (e non solo) dal ’68 in poi, ma assistiamo anche al cambiamento della donna: da brillante studentessa di Sociologia, che combatte ardita per far diventare il suo indirizzo di studi una facoltà autonoma all’Università di Trento, dove studia, a donna talmente inaridita dalle ingiustizie sociali da decidere di fondare, con il marito, le Brigate Rosse.

I quadretti di vita familiare si alternano alla lettura di veri articoli di cronaca politica del tempo: l’intimità delle discussioni e delle dimostrazioni d’affetto all’interno delle mura di casa sono affrontate in dialetto trentino, mentre il resto è scandito da un italiano chiaro e asciutto. Ma anche Margherita, durante la sua crescita, perderà l’uso del dialetto che tanto profuma di casa: da ingenua studentessa con alti ideali di cambiamento della società e di libertà, “Mara” (così sarà chiamata all’interno delle Brigare Rosse) inizia a considerare la violenza legittima di fronte alle ingiustizie che è costretta a vedere e vivere, tanto da essere poi costretta a diventare latitante. Contemporaneamente anche l’atteggiamento del padre nei suoi confronti cambia. Inizialmente è percepibile un profondo affetto, da parte di entrambi, anche nelle piccole discussioni che colorano le loro giornate. In fondo egli era il capofamiglia di una cattolica famiglia conservatrice, che non riusciva a capire l’esigenza di superamento di certe rigide gerarchie, anche se la figlia prova a fargli capire il punto di vista degli studenti, in quegli anni tanto agitati. Ma dopo che Margherita si sposa e si trasferisce a Milano, il padre inizia ad essere sempre più preoccupato per lo stile di vita della figlia, come se sapesse già l’esito tragico delle sue decisioni. Cerca di persuaderla a tornare a casa, a lasciare perdere le lotte, ma viene sempre respinto e così le loro conversazioni, inizialmente fresche e colorite, si tramutano in pesanti silenzi, carichi di un amore doloroso.

Margherita Cagol morirà durante uno scontro con i Carabinieri a soli trent’anni, convinta dei suoi ideali ormai esasperati dalla logica terrorista. Verrà ricordata infatti dai suoi compagni come una fiera combattente, ma l’epilogo della sua vita viene riassunto in una visione onirica del padre, che la rivede in casa, accanto a lui, a preparare un caffè, con i vestiti di quando ancora era una semplice studentessa. Questo ci permette così di considerare il personaggio di Margherita non più unicamente come una terrorista, violenta mandante di sequestri ancora vividi nelle pagine nere della nostra Storia, ma come una fanciulla con un padre talmente accecato dall’amore da non voler vedere fino in fondo quello che la figlia stesse diventando.

E il dolore di un padre che dovrà seppellire la figlia, consapevole di non aver mai condiviso le sue scelte di vita, lo proviamo un po’ anche noi, dal pubblico, vedendo lo sguardo profondo di Andrea Castelli.

Ottima anche l’interpretazione di Francesca Porrini, che bene riesce a personificare l’intricato carattere di una donna tanto forte e risoluta.

 

L’uso del dialetto trentino in molti momenti è stato però una limitazione sia per alcuni spettatori, che non capendolo non sono riusciti a comprendere fino in fondo la profondità di certe conversazioni, sia per gli attori, che in alcuni momenti, sebbene rari, si bloccavano brevemente.

 

di Alice Del Mutolo

 

DI ANGELA DEMATTÈ
TESTO VINCITORE DEL PREMIO RICCIONE 2009 E DEL PREMIO GOLDEN GRAAL 2010

REGIA: CARMELO RIFICI
CON ANDREA CASTELLI E FRANCESCA PORRINI
SCENE E COSTUMI: PAOLO DI BENEDETTO
MUSICHE: ZENO GABAGLIO
LUCI: PAMELA CANTATORE
VIDEO: ROBERTO MUCCHIUT
ASSISTENTE SCENOGRAFO: ANDREA COLOMBO
REGISTA ASSISTENTE: ALAN ALPENFELT
PRODUZIONE: LUGANOINSCENA, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, CTB – CENTRO TEATRALE BRESCIANO
IN COPRODUZIONE CON LAC – LUGANO ARTE E CULTURA

 

 

XXIII Edizione Festival delle Colline Torinesi

Presso la Fondazione Mertz si è tenuta il 26 aprile scorso la presentazione della XXIII edizione del Festival delle Colline Torinesi, dedicato alla drammaturgia e tematiche contemporanee.

Il Festival, diretto da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, è realizzato in sinergia con la Fondazione  Teatro Piemonte Europa. Il Festival presenta autori, registi, interpreti  di diverse paesi del mondo, tra cui Francia, Svizzera, Spagna, Grecia, Romania, Iran, Costa D’Avorio oltre che all’Italia, ancora una volta per ribadire al sua internazionalità e apertura verso altri contesti teatrali. Tante le collaborazioni, tra le quali quelle con Teatro Stabile Torino, Piemonte dal Vivo, Casa del Teatro Ragazzi e con altre istituzioni non teatrali come Il Museo Nazionale del Cinema e la Fondazione Merz.

Dall’1 al 22 giugno 2018 si potrà assistere a molti spettacoli e incontri stimolanti che ruotano attorno al Festival .

Alla presentazione si sciorina il programma degli spettacoli anticipando che questa edizione avrà come tema principale il Fluctus, il viaggio in tutte le sue declinazioni. Il viaggio e il valore della memoria in Empire di Milo Rau, dove protagonisti sono quattro attori/migranti che raccontano le loro odissee. Ancora le migrazioni come fenomeno culturale ritornano in Birdie di Agrupacion  Senor Serrano, compagnia catalana che accosta i migranti agli Uccelli di Hitchcock. La compagnia greca Blitz Theatre con Late night cercherà di capire cosa stia accadendo all’Europa, raffigurandola ferita e decadente.  Il viaggio interplanetario con Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini, Premio Siae Sillumina.

Un altro tema importante è il rapporto tra le generazioni e i sessi. L’apertura del festival sarà affidata alla Trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati. Tre spettacoli nella stessa serata partendo con Peter Pan guarda sotto le gonne, poi Stabat Mater e infine Un Eschimese in Amazzonia. L’iraniano Amir Reza Koohestami in Summerless riflette sul rapporto fra uomini e donne, giovani e vecchi, in mondo che sta cambiando. Lo scontro tra le culture presente sia in Causa di Beatificazioni di Massimo Sgorbani diretto da Michele di Mauro, e sia in Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali, messo in scena da Lab121 con la regia di Claudio Autelli.

Molti sono gli spunti letterari o riferimenti alla drammaturgia classica: Giulio Cesare. Pezzi staccati da Shakesperare, spettacolo-istallazione di Romeo Castellucci; Dialoghi con Leucò, studio firmato da Silvia Costa e dedicato al mondo di Cesare Pavese; Platonov / commedia senza padri, progetto biennale cechoviano del Mulino di Amleto; Oh no, Simon Weil!, liberamente tratto dalla vita e dalle opere di Simon Weil, monologo di Milena Costanzo; uno spettacolo itinerante di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, Dickinson’s Walk; una serata a soggetto di Chiara Lagani, sulla saga dei Libri di Oz. Inoltre saranno presenti il premio Ubu per il miglior spettacolo 2017 Macbettu, un Macbeth recitato in sardo e da soli uomini, e il premio Ubu miglior attrice under 35, Cristina Balivo che reciterà in La buona educazione della Compagnia Dammacco. A chiudere il Festival sarà Aiace di Linda Dalisi e Matteo Luoni che riscrivono la tragedia di Sofocle, interpretato dall’attore ivoriano Abrham Kouadio Narcisse.

Oltre a questi e altri spettacoli, non mancheranno eventi che ruotano attorno al Festival, come “Cinema in scena”, in collaborazione con Il Museo Nazionale del Cinema, proiezioni di film che si terranno al cinema Massimo, inerenti agli spettacoli in cartellone: a maggio, Untitled viaggio senza fine di Michael Glawogger/Monika Willi, nel mese di giugno, Uccelli di Alfred Hitchcock, Macbeth di Roman Polanski, Stanze di Gianluca e Massimiliano De Serio.

Ci saranno incontri con gli artisti de Festival a cura di Laura Bevione e un incontro dal titolo Fluctus, riflessioni sulle declinazioni del viaggio, aperitivo per confrontarci su viaggi geografici, emotivi, intellettuali, teatrali che caratterizzano la nostra epoca contemporanea.

Ma questo non basta. Ritorna, l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori., in cui si possono commentare spettacoli e consigliare quelli da non perdere.

Gli spettacoli, oltre che nei teatri torinesi Astra, Cafè Muller, Casa del Teatro e Gobetti, saranno proposti anche a Moncalieri alle Fonderie Limone, a Collegno alla Lavanderia a Vapore e in spazi cittadini non tradizionali quali la Fondazione Merz, il Superbudda e il Caffè Elena.

Dopo aver visto il volto di bambini che non hanno mai avuto modo di sorridere […],

dopo esser stati in balia dei venti del deserto che accecano e bruciano gli occhi per farvi dimenticare […],

allora è lo stesso, vivere, morire, sognare o amare,

allora la nostalgia è come il troppo vino che finisce per ucciderti […].

(Lida Abdul, Segno di artista: Time, Love and the workings of anti-love)

Con questa poesia  vi auguriamo buon festival chiedendovi di partecipare numerosi, non per fare come si suol dire numero, ma condividere il momento teatro  con chi vi sta accanto e chi sulla scena. Ribadendo che anche un buon spettatore è necessario alla rappresentazione. Vi aspettiamo!

Per chi sente un desiderio profondo di partecipare al Festival e vuole divorare gli spettacoli, indichiamo riduzioni dei biglietti se acquistati entro al data del 13 maggio. I biglietti possono essere acquistati al Teatro Astra, nelle rivendite Vivaticket (online www.vivaticket.it), A  Infopiemonte  – Torinocultura.

@Contatti (per info e abbonamenti):+011 5634352

+393462195112; www.festivaldellecolline.it

@Luoghi: Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Cafè Muller, Fonderie Limone (Moncalieri), Lavanderia a Vapore (Collegno), Fondazione Merz, Superbudda, Caffè Elena.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

IL GIURAMENTO DELLA DIGNITA’

Dal 16 al 18 Febbraio il Teatro Astra ha ospitato lo spettacolo Il Giuramento, un testo di Claudio Fava con la regia di Ninni Bruschetta. La storia è ambientata in Italia nel 1931 e narra di Mario Carrara, professore di Patologia all’Università di Torino, uno dei dodici docenti che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo. Mussolini lo aveva imposto per essere certo di avere pieno controllo sulla formazione, sugli  insegnamenti impartiti ai giovani, stroncando ogni possibilità di dissenso.

Lo spettacolo si apre con l’ingresso  in scena  (dalla platea) degli attori mascherati e con un mantello nero che intonano una versione rivisitata di Faccetta Nera in chiave jazz: un modo per  permettere agli spettatori di entrare nell’atmosfera in cui si ambienterà lo spettacolo; sono, infatti, molti i rimandi ai primi anni dell’epoca fascista che chiariscono il periodo storico e sociale della messinscena: il ritmo quasi martellante della marcia delle camicie nere scandisce la recitazione degli attori soprattutto in momenti di particolare tensione e alcuni allievi del professor Carrara si recano a lezione indossando la divisa del partito, muniti di regolare pugnale. Inoltre ci sono personaggi che incarnano le varie tipologie umane che si possono trovare sotto un regime: l’ufficiale austero dell’esercito che insegna ai giovani a essere forti e pronti per la guerra, i ragazzi che inneggiano al Duce sicuri che egli farà rinascere il Paese, e il Rettore dell’Università che sottolinea come l’Italia fascista abbia bisogno di muscoli e persone sane, declassando così i più deboli e i malati in un sistema a suo vedere perfetto, poiché freddo e inesorabile.

Al centro della vicenda, però, non vi è solo il contesto storico, che pure rimane  chiaro nella mente degli spettatori, non si vuole porre l’accento solo sul fatto che  il fascismo è stata  una dittatura  violenta e spietata. Al centro della vicenda, vediamo un uomo comune, con le sue manie e le sue abitudini, al quale piace il proprio lavoro, passare la propria conoscenza a giovani brillanti che saranno il futuro della società. Quest’uomo, Mario Carrara (David Coco), è sicuramente un antifascista, ma questa non è la prima cosa che viene messa in risalto, poiché egli, messo al corrente dal Rettore  che avrebbe dovuto prestare giuramento al Re e al Duce, vive una profonda crisi che non è dettata dal suo orientamento politico, ma dal fatto che prima di tutto si sente un uomo  e un medico. Il sapere, la conoscenza e la scienza non devono giurare a niente e a nessuno, non possono piegare il capo, ed è proprio per questo che Carrara non capisce perché un professore debba fare un giuramento su una materia oggettiva e totalmente slegata da qualsiasi retorica politica. Ed è qui che si scontra con l’opinione di altri: il Rettore (Simone Luglio) ha fede nel Duce, i suoi ragazzi sono stati quasi tutti ammaliati dalla promessa di valore e fama, e perfino il suo amico e collega apertamente socialista (Antonio Alveario) gli intima di giurare: perché lo faranno tutti, perché è l’unico modo per mantenere il proprio lavoro, ma soprattutto perché ormai il processo di affermazione di un totalitarismo è già iniziato e solo dall’interno si può ancora fare qualcosa. In un momento storico in cui le donne non venivano quasi considerate come esseri pensanti, sarà proprio la dolce e decisa Tilde (Stefania Ugomari di Blas), sua assistente da anni, alla quale è legato da un profondo affetto, a spingerlo a prendere una decisione. Grazie all’ultima conversazione con la donna, infatti, Carrara deciderà di congedarsi dai suoi studenti e accetterà di andare in carcere con l’unica colpa di avere avuto il coraggio di dire di no a qualcosa che riteneva profondamente ingiusto e proprio per questo con la testa alta di un uomo che con dignità si è distinto dal conformismo della società.

Dato il messaggio forte dello spettacolo, la regia ha voluto lasciare le menti degli spettatori sveglie e attente per tutta la sua durata realizzando una messinscena che non permetteva l’abbandono e l’immedesimazione: la scenografia essenziale rappresentava un aula universitaria con delle gradinate e una cattedra, aula che a seconda dei momenti poteva diventare anche un tribunale dove il professor Carrara sentiva premere su di lui il giudizio degli altri. Lo spazio teatrale era stato reso visibile in tutta la sua grandezza e potenzialità, e infatti anche le quinte erano sparite, in modo che gli attori uscendo di scena rimanessero sempre visibili al pubblico, spettatori anch’essi del dilemma interiore che si stava compiendo sul palco. Anche i pochi cambi scenografici sono stati fatti a vista  e spesso durante i dialoghi e i momenti corali si aveva un alternanza di recitazione e canto, che alla fine dello spettacolo si trasforma quasi in un canto funebre che accompagna Carrara in cella.

Molto interessante è l’uso dell’eco nei momenti più carichi di pathos, soprattutto quando il Rettore inneggia alle parole d’ordine del regime: in quei momenti è stato proprio come se quelle parole arrivassero direttamente dalle nostre coscienze, per invitarci ancora a riflettere su quello che è stato, sui gesti di uomini come Carrara, una memoria che non deve scomparire.

Degna di nota sicuramente è  la capacità degli attori di passare dal canto alla prosa senza perdere l’intensità del momento e facendo arrivare chiaramente al pubblico tutta la potenza di quello che volevano trasmettere.

Dopo lo spettacolo, ho assistito a un incontro di approfondimento con il regista Ninni Bruschetta, l’autore Claudio Fava e Tommaso De Luca, rappresentante dell’ANPI Provinciale, durante il quale è intervenuto anche il nipote di Mario Carrara, suo omonimo, presente allo spettacolo. Quest’ultimo, pur avendo apprezzato la recita, ha criticato alcuni aspetti della restituzione della figura del nonno,  primo fra tutti il fatto che non sia stata sottolineata chiaramente la posizione politica di Carrara, capostipite di una famiglia antifascista da generazioni. In risposta, l’autore ha sottolineato che il testo non voleva  raccontare che cosa fosse il fascismo, ma raccontare il coraggio di non conformarsi con la società, di rivendicare l’autonomia della ricerca scientifica. Infatti, con il suo gesto coraggioso, Mario Carrara è emblema di dignità e di dovere solo verso i propri principi scientifici. Come evidenzia poi il regista, nello spettacolo si è voluto scindere l’orientamento politico dal giudizio personale: quella di Carrara diventa un’azione eroica, poiché disgiunta dal fine; egli non pensa al risultato del suo rifiuto mentre lo compie, riesce solo a vedere con chiarezza quale sia la cosa moralmente giusta  da fare.

Concludo riportando una frase del personaggio del Rettore: “Non resterà traccia del vostro rifiuto”; i dodici nomi di chi si è rifiutato di giurare, elencati sulla via della prigione proprio da Carrara alla fine dello spettacolo, sono conosciuti e meritevoli di essere tramandati come un esempio. Gli altri 1238 professori invece non sono degni di memoria.

Alice Del Mutolo

Teatro Stabile di Catania
presenta

IL GIURAMENTO

novità assoluta di Claudio Fava
regia Ninni Bruschetta
con David Coco,
Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali,
Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano
musiche originali Cettina Donato
scene e costumi Riccardo Cappello
luci Salvo Orlando

Sei Personaggi in cerca d’autore

I sei personaggi pirandelliani cercano il loro autore sul palcoscenico del Teatro Astra dal 24 al 28 Gennaio, diretti da Luca de Fusco.

Uno dei testi teatrali italiani più importanti del Novecento; un’opera, come afferma lo stesso de Fusco, “che proveniva dal futuro, anticipando i tempi in modo clamoroso”.

Per apprenderla appieno e comprendere il motore che ha spinto Pirandello a scrivere quest’opera credo sia necessario un breve excursus storico sul dramma.

A partire dall’Ottocento il sistema di valori del dramma borghese, ossia il suo essere assoluto, primario, presente e basato su rapporti intersoggettivi, va in crisi.

Con autori come Ibsen, Cechov e Strindberg, comincia a scardinarsi il modello secondo il quale un dramma per essere tale deve essere un concatenamento di azioni mosse da rapporti interpersonali che avvengono nel momento stesso in cui noi vi assistiamo.

Si comincia a riconoscere l’impossibilità di continuare a portare sulla scena drammi di questo tipo, e ad intravedere la necessità di lasciare spazio ad altri temi, come il passato, la frammentazione dell’io e l’impossibilità dei rapporti umani.

Pirandello, agli inizi del Novecento, appena dopo la fine della Prima guerra mondiale, è proprio questo che porta in scena: l’impossibilità.

Ma impossibilità di cosa?

I personaggi, entità che provengono da un altro mondo, che esistono e vivono come il loro autore li ha concepiti, “più vivi di quelli che respirano e vestono panni; meno reali forse, ma più veri” (come dice il Padre al Capocomico), costretti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma, senza possibilità di uscirne, non possono essere rappresentati a teatro senza perdere la loro autenticità. Ogni attore interpreta un personaggio inevitabilmente a modo suo, e lo stesso spazio teatrale non permette la rappresentazione realistica dei fatti, ma è necessario mettere in atto delle convenzioni che i personaggi non accettano.

Allo stesso tempo però essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, dal momento che esistono in relazione ad esso. Cercano un autore perchè colui che li ha concepiti (Pirandello stesso) si è rifiutato di completare l’opera dal momento in cui si è reso consapevole della sua irrappresentabilità.

Dovevano essere predestinati al romanzo, ma sono approdati al teatro, e smaniano per avere una vita artistica. Ma forse non è il teatro la forma più adatta per quello che cercano.

Questo il punto di partenza di Luca de Fusco.

Citando lo stesso regista: “la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza, mi ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”.

Il lavoro del regista nasce dal pensare ai personaggi come un esperimento in rapporto con una fase iniziale dell’arte cinematografica.

Come ci racconta Gianni Garrera “i sei personaggi rinviano ad un eventualità di un cinema parlante, in un epoca in cui il cinema era ancora muto e in cui l’ipotesi avveniristica di un cinema parlante era vista come una minaccia per il teatro”.

I comportamenti dei personaggi appartengono al linguaggio cinematografico più che a quello teatrale, grazie al quale si possono udire i sottovoce, lo zoom può passare da un primo piano ad una panoramica o ad un dettaglio e ci permette di assistere ad azioni simultanee guidandoci tra i diversi luoghi senza difficoltà.

Con questo lavoro di contaminazione tra teatro e cinema de Fusco cerca di dare ai personaggi “ciò che chiedono invano al regista”.

Il video è usato per accentuare la dimensione “altra” dei personaggi, per creare gli spazi da loro richiesti e per permetterci di entrare nei loro ricordi.

Per il resto viene mantenuta l’atmosfera esplicitata dalle indicazioni di Pirandello, anche se queste non vengono rispettate alla lettera: gli attori e il capocomico entrano dalla platea, la prima attrice fa la sua entrata con un cagnolino al guinzaglio, i personaggi, molto differenziati rispetto agli attori grazie a trucco, costumi e luci (anche se non portano le maschere), non entrano dalla platea ma dal fondale del teatro che si apre “come per magia”.

La scenografia rappresenta uno spazio teatrale, più sobrio e crudele rispetto a quello che ci raccontano le didascalie dell’autore.

A completare la grande efficacia della messa in scena c’è l’interpretazione magistrale degli attori e dei personaggi, in particolare Eros Pagni e Gaia Aprea rispettivamente nel ruolo di Padre e Figliastra.

Meravigliosa e surreale l’entrata di Madama Pace (Angela Pagano), agghiacciante la scena del bordello, indisponente il silenzio del Figlio (Gianluca Musiu), emozionante l’annegamento della bambina (non un attrice ma una bambola) dietro ad uno schermo d’acqua, sorprendente lo sparo del giovinetto (Silvia Biancalana).

Immancabile il finale in cui non è più possibile distinguere i due mondi di realtà e finzione, che ci lascia, ora come nella prima rappresentazione del 1921, senza parole.

Concludo citando ancora una volta de Fusco: “Spero di indurre ad una rilettura scenica e letteraria di un testo che parla ancora oggi alla nostra coscienza contemporanea e ci invita a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza”.

Lara Barzon

Rumori fuori scena

Rumori fuori scena, titolo originale Noise off è una commedia scritta dal drammaturgo britannico Michael Frayn nel 1977, che ha avuto, e continua ad avere, un successo clamoroso: tradotta in 29 lingue è la commedia più rappresentata del Novecento e nel 1992 è diventata un film diretto da Peter Bogdanovich.
Non è difficile immaginare il motivo di questo successo: si tratta di una commedia che porta lo spettatore nel dietro le quinte svelandogli i segreti di una stravagante compagnia che racchiude in sé tutti i “tipi” umani: il dongiovanni, la bella e frivola, l’insicuro, l’ottimista e l’ubriacone.

È l’intreccio di due linee narrative, che mette in luce la semplicità nell’uomo, influenzabile e anche disarmato quando si parla di sentimenti, battibecchi e pettegolezzi. Ci viene presentata infatti una compagnia, traboccante dei caratteri-cliché di cui dicevamo, con la loro farsa che, con forza di volontà e buone intenzioni, sta mettendo in scena: Niente Addosso di Robert Hausemonger (titolo e autore sono inventati dallo stesso Frayn). Il tutto però è mescolato e strettamente collegato con le dinamiche personali tra gli attori, che nascono, fioriscono e interagiscono continuamente con il loro lavoro. Sembra insomma di ritrovarsi davanti a una classica tele novelas con i colpi di scena, le storie d’amore, i tradimenti, l’imbranato e via discorrendo, con la differenza che si è a teatro. Proprio per questo suo tono è inevitabile che i personaggi siano parecchi; se escludiamo il regista, Lloyd Dallas (interpretato da Fabrizio Martorelli), il direttore di scena Tim Allgood ( Ettore Lalli ) e l’assistente di scena Poppy Norton Taylor ( Lia Tomatis ), gli altri attori si trovano ad avere un doppio ruolo:
Dotty Otley, nello spettacolo La signora Clackett ( Daniela de Pellegrin ), Garry Lejeune, nello spettacolo Roger Tramplemain, ( Claudio Insegno ), Brooke Ashton, nello spettacolo Vicky (Carlotta Iossetti ), Frederick Fellowes, nello spettacolo Philip Brent e Lo Sceicco (Andrea Beltramo), Belinda Blair, nello spettacolo Flavia Brent (Carlotta Viscovo), Selsdon Mowbray, nello spettacolo Lo Scassinatore (Guido Ruffa).
La commedia, divisa in tre atti, si apre con una musichetta leggera, con l’entrata di quella che pare una donna di casa intenta a prepararsi a guardare la tv, comodamente sul divano, con giornale e acciughe, approfittando dell’assenza dei padroni. Lo spettatore inizia così, come naturale, a concentrarsi, per capire chi sia, quale sia il suo rapporto con la casa, con il lavoro, insomma mette in moto i classici meccanismi per cercare di crearsi il nodo iniziale da cui far partire il filo della storia. Per questo rimane quasi scombussolato, dopo cinque o sei minuti, all’irrompente voce che grida dalla platea. Il castello di ragionamenti viene bellamente buttato giù e ci si rende conto di trovarsi in una situazione meta teatrale con il regista che interrompe la scena. La mente allora scatta e capiamo di assistere alle prove generali, disperate della compagnia che da quel momento in poi ci porteranno all’interno di un perfetto meccanismo di equivoci, tra la commedia Niente addosso e gli errori degli attori, tanto che la fine del primo atto coincide con la fine del primo atto della commedia.

Nel secondo atto, invece, la situazione si capovolge. Il pubblico non si trova più dalla parte degli spettatori, ma è invitato a spiare dietro le quinte, dove si troverà faccia a faccia con le dinamiche sentimentali, i litigi e le piccole vendette degli attori, che inevitabilmente andranno a condizionare l’andamento dello spettacolo. Sapendo già le dinamiche della farsa, però, che si sente echeggiare dietro le scenografie, ci si sente quasi complici del disastro. L’aprirsi delle porte, l’entrare, l’uscire, gli oggetti di scena che cadono, si impigliano, rianimano nella memoria di chi guarda il loro ruolo nello spettacolo, ruolo che, ovviamente, andrà perso per via degli attori impulsivi e ormai completamente persi nelle loro sfere personali di vita quotidiana.

Nel terzo atto, il nostro sguardo viene nuovamente ribaltato. Si rivede il palco con la scenografia della casa, il divano, il tavolino e la tv. Ci si rende anche conto della degenerazione che ha avuto il tour di questa compagnia grazie a quella messa in scena che, organizzata in modo casuale, disordinato e sporco, grida pietà. Per la terza ed ultima volta ci si riprepara così a godere di Niente addosso resa ancora più esilarante dall’aumentare dei litigi nel retroscena che dirompano nel quadro in piena vista al pubblico.
Nel finale, quando ormai sembra impossibile recuperare la situazione, tutto si sistema per il meglio, come in ogni commedia che si rispetti. I personaggi infatti, si ritrovano imbarazzati tutti sulla scena, persino il regista, che aveva affermato più volta di non volerne sapere più nulla, all’ultimo si veste come può ed entra in scena cercando di recuperare le fila di quella commedia naufragante.

Nella regia di Claudio Insigno, gli effetti comici sono portati sul palcoscenico con estrema maestria; lo spettacolo è una continua risata dall’inizio alla fine, grazie alla caratterizzazione comica dei personaggi e ai ritmi sostenuti.
La scena, curata da Francesco Fassone, e i costumi, di Barbara Tomada, ci riportano ad un teatro tradizionale, in cui la scenografia è realistica e costruita, e i costumi rappresentativi del ruolo, cosa al giorno d’oggi alquanto rara.
Uno spettacolo famigliare, che mira allo svago, all’alleggerire la mente e fa sentire lo spettatore un’ospite ben accolto, in un umile, semplice e sentimentale compagnia allo sbaraglio.

Lara Barzon e Gisella Grandis

 

L’ultima performance: la vita

All’interno della stagione del TPE Teatro Piemonte Europa, Eros Pagni va in scena con Minetti di Thomas Bernhard, testo classico del teatro contemporaneo. Un magistrale attore diretto da un amico, Marco Sciaccaluga; due artisti che sono riusciti a trovare una perfetta intesa e a creare una reciproca collaborazione. Lo spettacolo prodotto dal Teatro stabile di Genova è stato in scena a Torino dal 15 al 19 febbraio.

Minetti racconta la storia di un attore ormai anziano, Bernhard Minetti appunto, che viene chiamato per interpretare uno spettacolo che segnerebbe il suo ritorno sulla scena teatrale dopo trent’anni di assenza. Minetti arriva dunque all’albergo e attende il suo amico e direttore del teatro, che gli ha dato appuntamento nella hall la notte di San Silvestro. Quest’ultimo tarda però ad arrivare; durante la lunga attesa l’attore incontra vari ospiti che alloggiano all’hotel, e racconta loro in modo ossessivo la storia della sua vita. Il suo attaccamento quasi morboso al passato si manifesta fin da subito, non solo tramite le storie che racconta, spesso ridondanti e sempre uguali, ma anche nell’atteggiamento che ha nei confronti della sua valigia. Questa, dalla quale non si allontana mai, contiene infatti un oggetto estremamente prezioso: la maschera del Re Lear. Il vecchio attore racconta con passione di come la sua  interpretazione del dramma shakespeariano lo abbia portato al successo, interpretazione però dalla quale non è più riuscito a separarsi, e lo capiamo dai racconti della sua vita quotidiana. Egli stesso afferma che ogni giorno, facendosi la barba o preparando la cena, ripete la parte per almeno venti minuti, e ogni domenica l’intera opera. Minetti spaccia questo comportamento come un “tener viva la memoria”, in realtà guardandolo da un punto di vista esterno sembra più un disperato tentativo di sentirsi ancora un attore vivo e presente sulla scena.    Continua la lettura di L’ultima performance: la vita

Quinta puntata de “I Tre Moschettieri”

La quinta puntata de “I Tre Moschettieri”, esperimento di “teatro a puntate” prodotto dalla fondazione TPE (Teatro Piemonte Europa) in scena al teatro Astra e diretta da Andrea Baracco sul testo riscritto da Ghigo de Chiara, soddisfa le aspettative e la curiosità destate.

Ormai la vicenda di D’Artagnan e dei suoi fedeli compagni Athos, Porthos e Aramis è già avviata, ma Continua la lettura di Quinta puntata de “I Tre Moschettieri”

I tre moschettieri al teatro Astra: la rivoluzione in scena.

Il debutto de “I tre moschettieri” è stato un gran successo, la seconda puntata è stata accolta magnificamente sia dal pubblico sia dalla critica; non si poteva mancare all’appuntamento del 13 febbraio per il terzo capitolo di quest’avventura. Chi come me non ha potuto assistere agli spettacoli precedenti non deve preoccuparsi: all’inizio della puntata viene fatto un riassunto di quanto è successo in precedenza e durante lo spettacolo gli attori fanno liberamente riferimento “alla puntata precedente” suscitando le risate dei presenti. Le aspettative erano grandi certo, ma sono state superate ampiamente. Una folata di vento che ha spazzato via tutte le mie credenze e i luoghi comuni sul teatro.

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I tre moschettieri: seconda puntata

di Matteo Tamborrino

Il secondo appuntamento con il serial teatrale del TPE è andato in scena dal 27 febbraio al 4 marzo sul “palco stravolto” del Teatro Astra di Torino, per la regia del proteiforme istrione Gigi Proietti.


Foto di scena:
Foto di scena: Luca Terracciano e Maria Alberta Navello

«D’Artagnan e i suoi nuovi amici – così recita il programma di sala (e così reciterà all’inizio della terza puntata anche Lia Tomatis nei panni di una seicentesca Annunciatrice/Popolana) – banchettano e festeggiano con i soldi ricevuti dal Re per il loro coraggio. Un bel giorno Bonacieux, padrone di casa di D’Artagnan, va a trovare il giovane e gli chiede di ritrovare sua moglie Costanza, guardarobiera della Regina, misteriosamente sparita. D’Artagnan gli promette aiuto ma poco dopo lo abbandona nelle grinfie delle Guardie del Cardinale venute ad arrestarlo perché sospetto complice nella sparizione della moglie. D’Artagnan finge collaborazione con i questurini per poter continuare a cercare Costanza che infatti, di lì a poco, ritorna in segreto a casa Bonacieux, rischiando pure lei l’arresto. Ma D’Artagnan la salva mettendo questa volta in fuga le guardie del Cardinale. Perché Costanza è sparita? Il suo segreto ha a che fare con l’arrivo clandestino del Duca di Buckingham, ministro d’Inghilterra, innamorato della Regina? D’Artagnan a sua volta si innamora di Costanza e per lei si ritrova invischiato nei misteriosi intrighi di corte: la Regina, Buckingham, il Cardinale che li vuole svergognare, il Re sospettoso e incollerito, Milady e il misterioso sfregiato, sicuramente due agenti del cardinale».

Una puntata ricca di intrecci e fulcri, dunque, anche se a dominare la scena – per l’intera durata dello spettacolo – è il giovane e abile Luca Terracciano/D’Artagnan, dallo stile fresco e ironico: si muove fluidamente in scena (sempre che di scena tradizionale si possa parlare), coinvolgendo il pubblico, anche solo con sguardi, ammiccamenti e caratteristiche risate, così come i suoi colleghi moschettieri Alberto Onofrietti/Athos, Diego Casalis/Porthos e Matteo Romoli/Aramis. Ad acuire questo senso di inglobamento dello spettatore è sicuramente la disposizione scenografica, che produce interessanti effetti prossemici. Il pubblico si sistema ai lati di una scena centrale (una sorta di lungo corridoio che collega le facciate di due palazzi dirimpettai), su una cascata di gradoni. La scenografia è curata e metonimica: un tavolo per un’abitazione, una vasca d’oro per il Louvre. L’atmosfera sembra fondere rievocazione storica (soprattutto nei mirabili costumi) e comicità dai toni amabilmente kitsch.

Certo questo connubio così particolare è ricercato coscientemente dal regista stesso, che trasforma questa puntata del romanzo in un vaudeville fumettistico, ricco di brevi monologhi a mo’ di didascalia e misuratamente ridanciano, complici anche le battute napoletane di Fabrizio Martorelli/Bonacieux e quelle spagnole della simpatica Maria José Revert/Dama Estefania, nonché gli interventi del dipartito padre Sergio Troiano, spesso in vesti femminili di domestica. Nell’intervista di presentazione Proietti afferma: «Sicuramente ci sarà dell’ironia, ma senza esagerare». Non si cade mai infatti in uno stile meramente macchiettistico. Tuttavia, i punti deboli non mancano: la messinscena è infatti priva di quella pulizia, di quel labor limae, che si pretende da uno spettacolo presentato come grande kolossal e sostenuto da un’impeccabile campagna pubblicitaria sui social e sul web. Le scene di Riccardo Ripani/Buckingham non funzionano: l’attore – dall’ottima dizione, in perfetto stile Paolo Grassi – manca però dei giusti tempi comici nella scena della spada reintrodotta nel fodero e impreziosita dalla battuta “Un momento!” rivolta a D’Artagnan che chiede ripetutamente il suo perdono. Una sequenza su cui Proietti aveva tanto insistito in prova (forse troppo), ma che non riesce. E così anche il momento musicale “Perché sono Bah-king-ham”.

La ragione di queste fragilità è forse da ricercare nell’estenuante lavoro a cui gli interpreti sono sottoposti: prove mattutine e pomeridiane della puntata successiva e repliche serali della puntata in corso. Quella di Proietti – in prova – si presenta come una regia “verticale”, quasi imitativa: non dà soltanto degli input agli attori, ma delle vere e proprie soluzioni sceniche da riprodurre. Il tempo è troppo poco per lavorare diffusamente con gli interpreti. Questo comunque non toglie che ci siano anche importanti elementi positivi. Ad esempio, la coppia dei reali di Francia: lei – Marcella Favilla/Anna d’Austria – domina (anche grazie al poderoso abito) la scena del dialogo con Buckingham, presenti le dame. La sua parodia melodrammatica – e il movimento ritmato della mascella asburgica – è eccellente. Così anche l’effeminato consorte Luigi XIII, interpretato dal bravissimo Gianluigi Pizzetti, che nonostante il fugacissimo cammeo nel finale, propone una maschera facciale davvero peculiare. E infine, le sapide gags del profumo Tonatto, che si inseriscono armonicamente nel tessuto drammaturgico.

Insomma, un ciclo teatrale, quello dei Moschettieri, che merita di essere seguito, ma che necessita ancora di qualche accorgimento da parte degli interpreti.

I TRE MOSCHETTIERI – II puntata
da Alexandre Dumas
testo Aldo Trionfo
coordinamento drammaturgico Andrea Borini
regia Gigi Proietti
regista assistente Lia Tomatis
con Luca Terracciano, Alberto Onofrietti, Diego Casalis, Matteo Romoli, Sergio Troiano, Maria Alberta Navello, Alessandro Meringolo, Stefano Moretti, Marcella Favilla, Riccardo Ripani, Fabrizio Martorelli, Vincenzo Paterna, Domenico Macrì, Matteo Anselmi, Giacomo Mattia, Marco Intraia, Andrea Romero, Maria Jose’ Revert, Michela Di Martino, Valeria Tardivo, Alessandro Panatteri, Lia Tomatis, Daniela Marcelli
scene e costumi Luigi Perego
con l’assistenza di Luca Filaci
musiche Germano Mazzocchetti
al piano Alessandro Panatteri
coreografie Federica Pozzo
progetto luci Gigi Saccomandi
scenografo collaboratore Francesco Fassone
costumista collaboratrice Augusta Tibaldeschi
allestimento scenografico realizzato in collaborazione con TEATRO REGIO TORINO
collaborazione per la costruzione di elementi di attrezzeria a cura degli studenti del corso di Teatro di figura dell’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino: Micol Rosso, Branislav Dimov